Home Cronaca Umbria, terra di misteri e delitti rimasti irrisolti

Umbria, terra di misteri e delitti rimasti irrisolti

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Tante le storie dimenticate di vittime che attendono ancora che si faccia luce sulla propria fine

Di Lucia Pippi – Umbria terra di misteri. Non soltanto per le numerose leggende che riguardano i piccoli paesi della regione. Anche per i tanti delitti senza colpevole che, nel corso degli anni, sono finiti alla ribalta delle cronache e che hanno animato i discorsi, a volte solo sussurrati, delle persone che vivevano in quei borghi, spesso di poche case, tra le colline della regione.

Il più famoso è stato quello di Mara Calisti, uccisa a Todi il 15 luglio 1993. Un delitto inquietante, strano. Avvenuto di notte all’interno di una camera chiusa. Mara, segretaria e addetta alle pulizie, viveva con il padre e la famiglia della sorella. In quella sera d’estate la sorella, il marito e i nipoti, si trovavano nella casa di campagna. Lei rimane a Todi con il padre. Finito di lavorare è rientrata a casa e ha cenato con il padre che poi è uscito. Lei ha chiamato una vicina per prendere il caffè insieme e si è messa a stirare. Ad un certo punto le due donne si separano. Mara è andata a letto mentre il padre dormiva nella sua stanza. Verso le 3 Mara è entrata in camera del padre ed è caduta a terra uccisa da una coltellata dopo aver detto: “Papà, guarda cosa mi hanno fatto”. Qualcuno è entrato in casa? Chi gli ha aperto, visto che la porta non presentava segni di scasso? Chi ha ucciso Mara? Le indagini si muovono su più piani, viene scandagliata la vita di Mara, le sue amicizie, la sua relazione con un uomo sposato. Ma nella sua esistenza normale non viene trovato alcun possibile movente per quel delitto. Viene poi indagato il padre che si professa innocente. A suo carico non ci sono prove o indizi e viene scagionato. Anche se il caso di Mara ha fatto tanto scalpore e se ne è parlato a più riprese, anche in famose trasmissioni, non è mai emerso un elemento che potesse far luce su quel delitto avvenuto in una notte d’estate in una città tranquilla come Todi, all’interno di una casa e di una stanza chiusa.

Dal punto di vista giudiziario c’è un altro caso che ha aperto le porte a quella che oggi è considerata la prova regina per tutti i delitti: il dna. In quel caso non si trattava, però, di analizzare tracce organiche di un possibile indagato. In tribunale finì un geranio, lasciato sul luogo del delitto, che venne analizzato per scoprire se il suo dna coincideva con quelli trovati a casa di un indagato. Stiamo parlando di Maura Fondacci uccisa a Gubbio il 6 novembre del 1997. Maura lavorava in una pasta fresca ed era tornata a casa per pranzare con i famigliari e col fratello. Era una ragazza tranquilla, con una relazione stabile che durava da anni. Quel giorno, dopo pranzo, ha preso la sua auto per tornare al lavoro. Pochi chilometri dopo è stata raggiunta da una fucilata. A trovarla è stato il fratello che ha cercato di prestarle soccorso ma non c’è stato niente da fare. Le indagini sono risultate da subito difficili. I sospetti si sono concentrati su un ragazzo della zona ritenuto da molti strano. A suo carico c’erano il possesso di un fucile e il fatto che, dopo la fine di una relazione, fosse caduto in depressione e odiasse le donne bionde, come Maura, appunto. Poi la coincidenza. Sul luogo del delitto qualcuno ha lasciato un fiore, un geranio. La madre di quel famoso giovane, guarda caso, coltivava gerani e lui non aveva un alibi per l’ora del delitto. Anche il dna del geranio, comparato con quelli trovati a casa del giovane non era compatibile. Il ragazzo è stato, però, accusato e condannato ma, alla fine, è uscito di scena: non aveva ucciso lui Maura. Per gli anni della detenzione è stato anche risarcito. L’assassino di Maura, quindi, chi è? Come mai in tanti anni non è mai venuto fuori? Di ipotesi ne sono state fatte tante ma non hanno mai portato ad individuare un movente e un colpevole. Così chi ha messo fine alla vita e ai sogni di questa giovane, per anni ha continuato a girare indisturbato per le strade di Gubbio.

Parlando invece di uomini, il cui colpevole è rimasto ancora ignoto, arriviamo a Gabrio Crispoltoni, ucciso davanti al suo bar di Città di Castello nella notte del 7 luglio 1991. Un uomo normale, con un lavoro molto ben avviato, una famiglia. Come ogni sera era rimasto fino a tardi nel locale, uno dei punti di riferimento per Città di Castello e dove ogni tanto si organizzavano tornei di biliardo. Mentre stava chiudendo, attorno alle 2, è stato raggiunto da 10 colpi di pistola, sparati all’interno del bar di sua proprietà. Ha fatto appena in tempo a trascinarsi fino al vicino supermercato per chiedere aiuto che è morto. A dare l’allarme sono state proprio le persone che stavano facendo le pulizie all’interno del negozio. Come mai? Il barista aveva visto qualcosa che non doveva vedere? C’era un giro di racket dietro l’omicidio? Quello che è certo è che l’uomo, negli ultimi giorni, sembrava preoccupato. Un amico lo aveva visto distratto, “un po’ giù di corda” nell’ultimo periodo. Per rassicurarlo l’imprenditore gli aveva però ribadito di essere solo stanco. Il giorno del delitto, però, qualcosa di diverso dal solito c’era stato. La sorella aveva notato che Gabrio, che amava molto curare il suo aspetto, era malmesso e trascurato ma non aveva avuto modo di parlarci. Gli inquirenti in un primo momento hanno pensato ad una rapina finita male. Ma la pista è stata presto abbandonata. Rimanevano in piedi i moventi legati al denaro. Non bisogna dimenticarsi che la famiglia Crispoltoni aveva messo aperto in poco tempo due bar in due zone diverse della città ed entrambi erano ben avviati. Sono stati presi in considerazione sei nomi che, però, nel corso del tempo usciranno di scena. Anche il movente è rimasto oscuro. L’inchiesta, dopo un anno e mezzo e dopo essere passata dai carabinieri alla polizia, è stata archiviata e anche l’assassino di Gabrio Crispoltoni è rimasto libero. Assassino o assassini, perché, una sola persona non avrebbe potuto sparare 10 colpi di pistola contro un uomo e fuggire senza essere visto.

C’è poi il professor Diego Rossi, docente di Filologia ad Urbino. L’uomo è stato strangolato e il suo cadavere è stato trovato in un casotto dell’Anas lungo la Flaminia Vecchia il 28 aprile 1988. Il docente, non sposato, viveva con il padre e conduceva una vita riservata. Al momento del ritrovamento del cadavere mancavano tutti i suoi effetti personali, un particolare che ha ritardato anche la sua identificazione. Rossi, infatti, aveva detto al fratello di volersi recare a Roma e, per alcuni giorni, i famigliari non si sono preoccupati di cercarlo. Nelle vicinanze della zona, inoltre, non c’era nemmeno la sua auto. Proprio quel veicolo, una Lancia coupé blu, ritrovato in un campo nomadi di Latina ha portato gli inquirenti ad ipotizzare un delitto per rapina, una pista subito abbandonata. Dalle indagini era emerso che Rossi era omosessuale e che frequentava un particolare club nel perugino. Oltre un anno dopo il delitto è stata fermata una donna con l’accusa di omicidio: avrebbe ricattato il professore per le sue frequentazioni e lo avrebbe ucciso perché non voleva pagare. La donna si è sempre professata innocente ma non ha un alibi per il giorno del delitto e sarebbe stata vista insieme a lui da alcuni testimoni. Ma la sua vicenda giudiziaria si è conclusa brevemente. Non era stata lei ad uccidere Rossi e anche questo delitto è ancora avvolto nel mistero.

Strana, invece, l’arma utilizzata per uccidere Mario Impastato il 13 febbraio 1995. Il suo corpo, infatti, è stato trovato lungo una piazzola di sosta del raccordo Terni-Orte, ad Amelia, vicino alla galleria San Pellegrino, con il volto trafitto da un fucile da pesca subacquea vicino alla sua auto. A scoprire il cadavere è stato un camionista. Secondo le prime indagini, Mario, fornaio residente a Civitavecchia, si sarebbe recato su quella strada con il preciso intento di suicidarsi. Mario, secondo la famiglia, non aveva motivo di suicidarsi e nemmeno di andare ad Amelia. Stava per sposarsi, aveva un lavoro e non ha mai dimostrato debolezze. La sera in cui è morto era stato con la fidanzata, poi era tornato a casa, aveva cenato con i genitori ed era uscito di nuovo. Alcuni amici lo avevano notato nei pressi di una discoteca. Poi il buio. Anche l’arma usata per il delitto è strana e, sicuramente, non apparteneva a Mario Impastato che non aveva mai fatto pesca subacquea e non aveva acquistato il fucile in nessuna delle rivendite del litorale romano, come ricostruito successivamente. Vicino al corpo del giovane è stata trovata una maglietta sporca di sangue. Quella sera faceva freddo e la presenza di un indumento del genere è stata ritenuta anomala. Ma su quel pezzo di stoffa non sono stati fatti gli accertamenti dovuti. E, nonostante le indagini della famiglia che avevano appurato che Mario aveva dei contatti nel Ternano, la sua morte è stata archiviata come suicidio. Una morte ancora inspiegabile, che tutto ha l’aria meno che di un gesto volontario.

Tanti misteri, tante storie che sono state dimenticate nel corso degli anni. Sorrisi spenti da mano rimaste anonime nel corso degli anni che ancora chiedono giustizia.