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Odiano la loro stessa storia, i padroni del Cremlino

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La plurisecolare cultura russa è indissolubilmente legata ai valori dell’Occidente, sin dai tempi di Pietro il Grande

di Bruno Di Pilla

Ma come possono, gli attuali padroni del Cremlino, odiare la loro stessa storia plurisecolare, indissolubilmente legata alla cultura del vituperato Occidente? Già nel periodo pietroburghese, regnante Pietro il Grande (1672-1725), poeti, letterati e drammaturghi russi s’ispirarono al pensiero degli autori classici greci, latini e francesi, con i filosofi illuministi che vennero addirittura esaltati da Caterina II, salita al trono nel 1762.

Quando poi il romanticismo europeo, agl’inizi del XIX secolo, soppiantò il classicismo grazie ai decisivi influssi delle opere di George Byron, spuntò il nutrito circolo dei poeti “decabristi”, anticonformisti e fedeli agli ideali di una poesia lirica ed elegiaca. Lo stesso Puskin, primo scrittore e romanziere nazionale, valorizzò l’eredità occidentale fondendone il prezioso bagaglio con intuizioni personali che scaturirono dalla vastità di generi letterari tipicamente autoctoni, quali il contrasto tra libertà creativa ed i bisogni delle masse popolari, l’ansia per i diritti naturali dell’uomo e le dure limitazioni imposte dallo Stato. Chiuso il ciclo di Pietroburgo, con il fallimento del romanticismo rivoluzionario, il fervore intellettuale emigrò a Mosca, dove nei salotti letterari s’intensificò con passione lo studio dell’idealismo tedesco di Fichte, Schelling, Hegel, nonché del socialismo utopista dei francesi Fourier e Saint-Simon. La nuova attenzione ai problemi sociali favorì l’impetuoso sviluppo del naturalismo gogoliano e del realismo positivista, i cui massimi esponenti furono il “plebeo” Dostoevskij e l’aristocratico Tolstoj, entrambi fervidi cultori delle radici letterarie e filosofiche europee.

Con la Rivoluzione del 1917, ed ancor più dopo la vittoria sul nazismo del 1945, l’accusa di cosmopolitismo si abbatté con crescente furore sugli artisti che si occupavano di morale, estetica, psicologia, trascurando l’attualità socialista. Solo con la morte di Stalin, a fatica riemersero processi di cauta liberalizzazione, soprattutto evidenti nella poesia di Evtusenko e nel romanzo di Solzenicyn “Una giornata di Ivan Denisovic”, che rivelò gli orrori dei lager staliniani. Poi, però, ai narratori “eretici” vennero riservati esilio, Siberia ed inflessibile repressione. Proprio come accade oggi con Putin, Medvedev e Kirill, che odiano gli occidentali “debosciati e corrotti”. Ma non erano tedeschi anche Marx, Engels e la “spartachista” Rosa Luxemburg, cui vanno le simpatie dello zar e dei vetero-comunisti?