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C’era una volta la scuola pubblica

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Il primo attacco all’autonomia della pubblica istruzione avviene nella seconda metà degli anni Novanta col primo Governo Prodi quando per decreto si parificano gli Istituti Statali a quelli gestiti dagli Enti locali e da soggetti privati (religiosi e non)

di Salvatore Maria Miccichè (*) – Sarà così anacronistico cominciare questo articolo con Concetto Marchesi, l’illustre latinista, politico e accademico?

“La scuola, dai tempi più antichi ai nostri, non è proceduta per salti o per alternarsi di oscuramenti e luci, ma si è sviluppata senza interruzione e con un processo conforme allo spirito e alla necessità dei tempi. Essa è una delle più chiare voci, e talora l’unica voce, che ci giunge dal passato. Perciò bisogna usare la massima cautela nell’innovare e nell’abolire. La scuola è un istituto secolare che non sopporta, senza danno, sopvrapposizioni bastarde e nemiche: essa è un albero antico su cui bisogna operare degli innesti e non delle sconsigliate mutilazioni.
La istruzione, sia primaria che secondaria, sia universitaria, non è problema di Regioni, di Comuni, di Enti Locali.

È problema nazionale…

Non basta che alcune Regioni abbiano possibilità di rendere fiorenti i loro istituti educativi se altrove l’intelligenza si fa sorda e pigra e vuota e la mente ignara… Non temete l’accentramento, onorevoli colleghi; la scuola quando è buona e funziona bene, è naturalmente decentrata.
E il decentramento non dipende né dal Comune né dalla Regione né dallo Stato: dipende dal maestro.

Chi decentra veramente la scuola e ne fa un organismo vivo e perciò distinto dagli altri organismi consimili, è il maestro, cioè l’individuo, cioè la persona umana.
Questa bisogna curare e sollevare dalla misera e dalla mortificazione. Come la terra va fertilizzata perché produca, così anche l’uomo.

Molti di quelli che fanno la politica considerano la scuola come astrazione fuori dalle necessità presenti e pochi la sentono come un organo ed organo supremo, di continuità e di sviluppo della vita nazionale…

Non sarà vano ripetere che su tutte le distinzioni e le autonomie regionali la suola, e soltanto la scuola, garantisce l’unità della nazione.

Da più parti si invoca il principio di autonomia e di libertà universitaria. Ma lo Stato non potrà e non dovrà mai abdicare alla Sua sovranità nell’ordinare e dirigere la scuola nazionale.
Oggi si fa un gran parlare di libertà scolastica anche per indicare un movimento contrario a una temuta prevalenza della sucola statale. Ma, onorevoli colleghi, è troppo grande il compito che oggi, in Italia e nel mondo intero, spetta alla scuola perché si possa lasciarlo fuori dal controllo dello Stato”.
(Dalla Relazione sui principi riguardanti la cultura e la scuola. Iª Sottocommissione per l’Assemblea Costituente)

Occorre aggiungere altro?

“Non è vero che volgendo lo sguardo al passato non si guadagna il futuro. Anzi al contrario. Si può sostenere che si comprende e si orienta il proprio domani interpretando i giorni e le opere di ieri, in cui si celano e si alimentano i tempi che seguono”. (B. Brocca)

Se si pone attenzione agli sviluppi del processo informatore che, a partire dagli anni ’70, ha interessato il mondo dell’istruzione e della formazione, si registrano: da una parte un impulso all’ammodernamento del sistema educativo, con la revisione di alcuni “segmenti”; dall’altra una tenace resistenza a ogni cambiamento. E tuttavia la contrapposizione tra questi due poli non è stata infruttuosa o esiziale.
Ma è a partire dalla seconda metà degli anni Novanta che il “focus” sull’istruzione e sull’educazione si sposta, improvvisamente, dai contenuti ideali e culturali, che erano stati ampiamente approfonditi nel periodo precedente, agli aspetti organizzativi e ordinamentali; quasi a volere definitivamente predisporre il quadro di riferimento al nuovo “verbo” dominante che si può riassumenre nel “paradigma funzionalista”.

Per esso la scuola è semplicemente strumento del sistema socio-economico, volta alla produzione del “capitale umano” attraverso la competizione e la performance delle competenze: la scuola-azienda, al posto della scuola-comunità democratica, indicata dalla Corte Costituzionale come “formazione sociale”, che ha come scopo fondamentale il pieno e integrale sviluppo della personalità di tutti i suoi membri.
Nel corso dell’ultimo trentennio, quindi, la discussione, sia tra gli esperti che nel mondo politico, si è sempre più incentrata sulla necessità di riformare il sistema scolastico, ponendo in primo piano l’esigenza del decentramento per meglio rispondere alle esigenze della scolarizzazione di massa in un contesto di rapide e profonde trasformazioni sul piano sociale ed economico e in una visione che includeva nel sistema formativo una pluralità di soggetti pubblici e privati del Territorio/Sistema formativo integrato.

La svolta verso il riconoscimento dell’autonomia alle scuole avviene nella seconda metà degli anni Novanta, col primo Governo Prodi.
Nel documento programmatico dell’Ulivo (dicembre 1995) è scritto che “l’istruzione è un bene di merito la cui fornitura non può essere lasciata al libero mercato della domanda e dell’offerta. Questo diritto viene garantito dalla Scuola pubblica”.
Si aggiunge però che “è Scuola pubblica quella gestita sia dallo Stato e da Enti Locali, sia da soggetti privati (religiosi e non)”.

Ciò perché “la Scuola di Stato non riesce a svolgere la decisiva funzione della perequazione delle diseguaglianze, ad assicurare a tutti i giovani pari opportunità, medesime condizioni di partenza”.

Questa affermazione appare quantomeno singolare.

Essa, al di là delle intenzioni degli estensori del documento, segna l’inizio di una resa che vedrà i suoi sviluppi negli anni successivi (dalla Riforma Berlinguer alla Buona Scuola di Renzi).

“Lo Stato – prosegue il documento – garantirà le condizioni poste dal sistema pubblico”, ma la legge sulla parità scolastica (L. 62/2000) porrà solo alcune di queste condizioni.
Ne dimenticherà alcune essenziali (al personale docente si limiterà a chiedere l’abilitazione, mentre il trattamento economico sarà quello del settore. Alle scuole paritarie viene riconosciuta la piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico. Lo Stato, quindi, riconosce la parità, ma rinuncia a fornire fondamentali linee di indirizzo (salvo le “blande” indicazioni nazionali” sulla cui attuazione non esercita alcun controllo se non con testi Invalsi).

La scuola istituzione, costituzionalmente riconosciuta, tende pertanto a dissolversi in una moltitudine di scuole, con indirizzi diversi, tutte “pubbliche” (la scuola liquida nella “società liquida”).

Si passa così da una visione universalistica dell’istruzione ad una sostanzialmente comunitaria e localistica.

C’è da aggiungere che molti di coloro che hanno posto il tema dell’autonomia e del decentramento hanno dato per scontato l’“ormai” definitivo consolidamento dell’unità complessiva del Paese, realizzata storicamente attraverso l’accentramento di un’ottica centralistica.

È appena il caso sottolineare che i dati della “dura realtà smentiscono clamorosamente questo assunto (basti pensare che secondo l’Ismez – Istituto per gli studi per il Mezzogiorno – il divario del Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud è tornato al livello del secolo scorso, senza considerare che il Sud sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento socio-demografico dalle conseguenze imprevedibili).

L’autonomia scolastica così come è stata realizzata è rimasta incompiuta senza poteri reali e responsabilità connesse (salvo per il Dirigente scolastico “responsabile dei risultati) e con un ruolo subalterno assegnato agli insegnanti, non più arbitri del curriculo ma sudditi di un sistema neo-verticistico.

Non a caso per i membri del cosiddetto “gruppo del buon senso” facente riferimento a diverse aree politiche (“primi firmatari” Vittorio Campione, già segretario particolare del Ministro Berlinguer, Paolo Ferratini, Luisa Ribolzi) “l’autonomia reale per funzionare deve comprendere l’assunzione diretta di poteri e responsabilità, e quindi:

– un sistema competitivo tra le scuole;

– libertà di scelta tra le scuole (sia statali che private) da parte delle famiglie;

– gestione in proprio da parte delle scuole delle risorse economiche e del personale;

– una “regia informativa” e quindi di “accountability” del sistema, dunque controllo e valutazione, sia all’interno della scuola, che da parte di agenzie esterne”.

Si passa così da una visione universalistica dell’istruzione ad una sostanzialmente comunitaria.
Questi sono i fondamenti su cui si innesteranno le scelte successive.

All’orizzonte si può cominciare a intravvedere il modello di scuola-azienda volta alla produzione e riproduzione del “capitale umano” attraverso una competizione meritocratica, col definitivo superamento del concetto di comunità democratica.
Gli studenti da cittadini titolari del diritto all’istruzione diventano “clienti” del servizio scolastico, produttori addetti ai dogmi dell’economia neo-liberista.

“Il problema della scuola oggi non è la sua inclinazione fasciteggiante, non è lo sguardo panottico del sorvegliante che individua e reprime, punendo le differenze soggettive dall’ideale normativo che si esige di riprodurre, quanto piuttosto la sua drammatica evaporazione, il suo rischio di estinzione. È lo stesso processo che ha investito la figura paterna…
Lo sanno bene gli insegnanti che si trovano per un verso screditati, messi al margine della società, umiliati economicamente e professionalmente, convocati paradossalmente ad esercitare sempre più la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non aver più sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni.

Il volto ipermoderno della scuola non assomiglia per nulla a quello di un tribunale morale che deve sentenziare sui destini dei giovani, ma più simile a quello che Pasolini ha definito “il nuovo fascismo della società dei consumi; è un volto che perde i suoi contorni, impalpabile, assente, abitato non dallo sguardo sempre aperto del Grande Fratello, ma dagli occhi vuoti di un soggetto depresso”. (Massimo Recalcati).

Ehi, c’è qualcuno là fuori che si ricorda della scuola, veicolo di promozione?

“La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico”. (Don Lorenzo Milani).

(*) Già Provveditore agli Studi di Perugia, già Dirigente Ufficio Gabinetto del MIUR. Attualmente è presidente del Nucleo di Valutazione del Conservatorio di Stato “F. Morlacchi” di Perugia.