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Amici della Musica, al teatro Morlacchi Mikhail Plëtnev, il pianista che mormora alla tastiera

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Una situazione, quella creatasi al Morlacchi, come raramente si è vissuta: oltre il concerto si è assistito al percorso di un grande musicista

di Stefano Ragni – Difficile ancor oggi rendere giustizia alla musica pianistica di Dvorak. Neanche l’affettuosa amicizia che lo legò al più maturo Brahms, che si offrì anche di correggere le bozze delle sue partiture inviate da New York, rese le produzioni pianistiche del maestro ceco appetibili a un ascolto che non fosse domesticamente piacevole. Per Dvorak, relegato dalla storia al rango di “Brahms dei poveri”, manca la tensione dello spirito costruttivo che anima ogni prodotto di colui che era stato preso a modello e emulazione.

Quando siamo entrati ieri sera al Morlacchi ci chiedevamo come mai gli Amici della Musica avessero accettato un programma così insolito: una manciata di riflessioni pianistiche brahmsiane e una preoccupante manciata di scampoli dvorakiani. L’autorevolezza del musicista ospite, il pianista russo Mikhail Plëtnev, a detta del direttore artistico Bronzi era garante della proposta. Sembra che il pianista russo abbia assicurato Bronzi sul fatto che il suo Dvorak era assolutamente unico. Ipotesi garantita anche dal fatto che l’artista russo si è portato dalla Svizzera il suo pianoforte, con due tecnici giapponesi al seguito. E si è capito subito perché. Dopo una Rapsodia brahmsiana inserita nel programma con scarsa convinzione e suonata di conseguenza, è cominciato lo snocciolamento dei bocconcini di Dvorak: un timido Minuetto, una tremula Egloga e una zoppicante marcetta. Musica senza costrutto, ma quel che ha fatto alzare le orecchie a tutti era lo stile esecutivo adottato da Plëtenev, qualcosa di magicamente rarefatto, linee e grottesche che disegnavano una trama impalpabile e vaporosa di sonorità prive di ossigeno. Qualcosa molto simile al Webern delle massime riflessioni timbriche. A quel punto chi voleva si è messo in condizioni di ascolto di estrema concentrazione per captare quel che il pianista russo voleva comunicarci.
La irruzione del Brahms dell’Intermezzo op. 118 n.6, prosciugato nelle sue vibrazioni e disseccato nelle tensioni è risultato di nuovo fuori quadro e quasi disorientante. Volevamo ancora Dvorak, la manciata di Humoresques del’op. 101 e dell’op. 103, con in finale la Egloga op. 103. Mentre l’orologio del teatro ci avvertiva che stava trascorrendo un’ora dall’inizio del concerto, ci chiedevamo quali segreti di lettura nascondesse un uomo che è nato sessantacinque anni fa nelle province russe del mar Bianco e si è imposto al mondo concertistico internazionale come vincitore del premio Ciaikovskj del 1978 e come fondatore e direttore della Russian National Orchestra. Sappiamo che l’attività direttoriale di Plëtenev è stata propiziata dal compianto Mikhail Gorbaciov e gli Amici della Musica sanno ricordare come nel 1995 il complesso si esibì qui a Perugia con straordinario successo.
Ma nessuno di noi ignora la damnatio memoriae dello statista sovietico dal volto umano attualmente promossa da Putin, e dal momento che nell’impero postcomunista ogni cosa è politica, Plëtnev è stato esonerato recentemente dal suo incarico. Ma non sottovalutate i russi dall’espressione paciosa e sorniona che ci ricordano, nei tratti di Plëtnev, quelli del grande Ghilels. Ebbene il nostro non si è perso d’animo e a Bratislava sta fondando una nuova orchestra russa, ma stavolta internazionale, arruolando tutti i musicisti profughi dalle lande sconvolte dalla dittatura di un gerarca che si crede Catilina.

Per un artista coinvolto in problemi tanto onerosi l’immersione nell’innocenza di Dvorak può suonare quasi come una benefica terapia di astrazione dai miasmi del male, verso la contemplazione di una assoluto combinatorio, dove anche le tintinnanti armonie dei pezzetti del maestro boemo si combinano come le leggendarie perle di vetro raccontante da Hermann Hesse. Per la nostra letteratura equivale al Machiavelli delle Storie fiorentine redatte in piena dittature medicea.

Una situazione, quella creatasi al Morlacchi, come raramente si è vissuta: non stavamo ascoltando un concerto, ma era il percorso di un grande pianista che rinuncia alle sue proverbiali capacità virtuosistiche, per un processo di impoverimento delle risorse del ridondante strumento, costretto a un anfibio gioco di rinunce, di scarnificazioni e di disossamento della tastiera. Anche se a un certo momento il tanto indispensabile strumento ha tradito il suo padrone, in un paio di pizzichi alle corde della tessitura alta. Coinvolti in un clima di incredibile aspettativa abbiamo accettato il Brahms dell’op. 117 come uno scotto da pagare per tornare al Dvorak dei Quadri poetici op. 85. In mezzo di nuovo un Brahms ormai molesto, la Ballata in sol minore imbrigliata in un contesto acustico che non è il suo. Ma la coerenza vuole che una volta adottata una scelta il pianoforte sia “povero” per tutti, anche per il sanguigno amburghese che per una volta tanto ha dovuto rinchiudere di nuovo i suoi furori germanici nelle foreste di Teutoburgo.

In un teatro civico colpevolmente sguarnito di pubblico, con larghi e preoccupanti vuoti, è scattata l’ovazione. Il benevolo Plëtnev cercava, con gesti eloquenti, di spiegare che era tardi. Ma ha dovuto cedere. Ed ecco allora un Notturno di Chopin come ce lo aspettavamo, spettrale, lugubre, liquido come una tela di Salvador Dalì. Roba da trattenere il fiato. Gli applausi non finivano e c’è uscito il pezzo mirabolante, una contorsione alla Mozkovski. Da ora in poi “nessuno tocchi Dvorak”.