Home Economia All’Umbria per risollevarsi serve un patto per lo sviluppo

All’Umbria per risollevarsi serve un patto per lo sviluppo

0

In questa regione, che ha conosciuto tempi migliori, ora si sente la necessità di lavorare in perfetta sinergia, mettendo in campo esperienze e nuovi talenti

luca-ferrucciDi Luca Ferrucci – Il dibattito che, da anni, attraversa l’Umbria e la città di Perugia in relazione al ruolo delle nostre università e, più in generale, delle nostre istituzioni culturali di alta qualificazione, appare spesso trainato da “vecchie” logiche e pregiudizievoli contrapposizioni di natura ideologica ed economica che spingono nella direzione di attribuire, con giudizi di valore netti e assoluti, responsabilità e meriti ad attori sociali e istituzionali differenti.

In realtà, dobbiamo “uscire” da questa logica corporativa per provare ad interpretare e valutare, anche con maggior distacco, il valore e i limiti delle nostre istituzioni culturali, a partire dalla più importante, ossia l’Università degli Studi di Perugia.

Esiste una simbiosi e un’interdipendenza funzionale tra tre fondamentali attori (Università, città, imprese) in una città di medie dimensioni quali Perugia, dai quali non possiamo prescindere. L’attrattività e la competitività di ciascuno di questi tre attori dipende anche dalla forza degli altri due. L’attrattività della popolazione universitaria, nonché la competitività scientifica del nostro Ateneo, non può prescindere dal magnetismo che la città può esercitare – in termini di servizi ricreativi, culturali e sociali in senso lato – sui giovani, nonché sulle possibilità future di poter offrire opportunità di lavoro qualificate ai nostri laureati. La golden age di Perugia è collocabile tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, quando l’Università, con il suo prestigio scientifico e didattico, attraeva popolazione studentesca, anche extra regionale, beneficiando tra l’altro di servizi cittadini che elevavano la qualità della vita giovanile e, poi, imprese altamente competitive (quali Buitoni Perugina, Luisa Spagnoli, Ellesse, Primigi, Mignini, Sangemini, e così via) che offrivano opportunità di lavoro ai nostri laureati. Sono stati anni d’oro durante i quali Perugia si caratterizzava per una elevata reputazione su scala nazionale, arrivando perfino a primeggiare in molte discipline sportive. Con il tramonto di molte dinastie imprenditoriali, questo circuito virtuoso si è appannato; il sistema della pubblica amministrazione ha “tamponato” temporaneamente, negli anni Novanta, la riduzione delle opportunità di lavoro per i giovani qualificati, ma a partire dagli anni Duemila Perugia è sempre di più divenuta una città in declino, in termini di reddito pro-capite, di qualità dei servizi, di attrattività studentesca (per esempio, è dal 2002 che la popolazione universitaria tende a ridursi). La città si è “rifugiata” in un’economia fondata sui servizi a basso valore aggiunto e su rendite fondiarie e immobiliari dagli “orizzonti economici” fragili e temporanei (come quella degli affittacamere e delle pizzerie!).

lavoro_economiaCome uscirne? Abbiamo bisogno di ritornare alle sinergie degli anni Ottanta, grazie magari a nuovi protagonisti imprenditoriali che operano sulla frontiera dell’innovazione e dell’internazionalizzazione, che mirano a conseguire profitti rischiosi (e non fondati sulle capacità relazionali) e proprio per questo sono capaci di erogare salari e stipendi dignitosi ai propri dipendenti. Un’economia competitiva si riflette positivamente anche su un’università attrattiva e contribuisce a influenzare una dinamica virtuosa dei servizi a maggior valore aggiunto nella città. Insomma, dobbiamo costruire e progettare una sorta di “tripla elica” sinergica tra Università, città e mercato del lavoro. Se solo uno di questi attori va per la propria strada, pregiudica anche gli altri due.

Ma dobbiamo anche riconoscere che la qualità e quantità del capitale umano qualificato che esce dalle nostre istituzioni universitarie non può essere ragionevolmente assorbito nel nostro sistema produttivo regionale. Abbiamo allora troppi laureati? Le statistiche comparate tra il nostro Paese e gli altri Paesi avanzati ci dicono che abbiamo troppi pochi laureati, ma non possiamo solo generare bravi laureati se poi non esistono opportunità di lavoro qualificato. E il gap strutturale tra il nostro Paese – ma anche la nostra Umbria – in termini di generazione di capitale umano qualificato giovanile e offerta di lavoro si è accentuato in modo oramai socialmente ed economicamente inaccettabile. Uno studente universitario costa, alle finanze pubbliche, circa 10.000 euro all’anno, ma a questa somma va ovviamente aggiunta quella sostenuta privatamente dalla famiglia di origine. Ci possiamo permettere di esportare i nostri giovani competenti ed importante solo “braccia” per occupazioni a basso valore aggiunto? Questa tendenza ci porterebbe verso un’economia “feudale” (dove contano solo i diritti di nascita per avere talune opportunità) e di limitata capacità innovativa.

Ecco, allora, l’importanza di accettare sino in fondo un’economia della conoscenza, dove conta il capitale umano qualificato, fatto di intelligenza e creatività, in ogni settore. I giovani qualificati, in un ecosistema adeguato socialmente e economicamente, sono in grado di mettere a frutto le loro competenze, in termini di nuove e possibili idee imprenditoriali. Idee intrinsecamente innovative perché non solo creano nuovi business ma sono in grado di ricombinare, in modo originale e pertinente rispetto ai nostri tempi (per esempio, con l’innesto di soluzioni web o digitali) anche “vecchi” mestieri imprenditoriali nel mondo della manifattura, dell’artigianato o dei servizi.

Ecco dunque la sfida per la nostra città e, più in generale, per la nostra regione: divenire un ecosistema sociale, istituzionale, culturale ed economico ad elevata attrattività di giovani talenti per stimolare nuove idee imprenditoriali capaci di dare maggiore competitività a tutto il sistema economica, dal turismo all’agricoltura al commercio alla manifattura sino all’artigianato.

In questa direzione, le idee imprenditoriali innovative non devono restare tali, in una sorta di “magazzino” incapace di creare valore economico. Le idee creano valore economico solo se si incorporano in nuove imprese e non se restano tali. Pertanto, è fondamentale uscire dal “magazzino” nel quale abbiamo sedimentato troppe volte idee, brevetti, competenze e conoscenze scientifiche e culturali. Questi “magazzini” non generano valore economico. Dobbiamo, nell’ecosistema locale e regionale del valore economico, trasformare le idee in una nuova generazione di imprese.

Ma queste nuove imprese, nate dal talento dei giovani, non nascono solo dalla scienza (come spesso siamo abituati a pensare quando parliamo unicamente di spin off universitari e brevetti), ma possono nascere anche dalla creatività (specie laddove questo ingrediente è fondamentale come in diversi settori della fashion) o dalla cultura umanistica (basti pensare al turismo e alla valorizzazione dei beni culturali) oppure dall’utilizzo intelligente delle risorse naturali (come per taluni prodotti agricoli di eccellenza da destinare alla nostra industria manifatturiera di qualità). Insomma, lo spazio per nuove imprese fatte da giovani è ampio e non si muove nello stretto rango della scienza e della tecnologia ma va ben oltre, anche nella logica di nuove “onde” dell’economia, quali quella della sharing economy, della green economy, della smart economy e della social economy.

Ma come si crea un ecosistema intelligente per assecondare nuove idee da trasformare in nuove imprese fatte da giovani? La ricetta non è semplice e sicuramente non ne esiste una soltanto. Vorrei però provare ad elencare, come in una sorta di lista della “spesa”, alcune cose fattibili su scala regionale:

  • Una scuola universitaria per giovani talenti che, durante il loro percorso di studi, possano integrare il loro corso di laurea specialistico (chimica, fisica, storica, ecc..) con summer school trasversali e work experience in aziende per prepararli a coltivare la loro futura idea imprenditoriale;
  • Le fondazioni umbre potrebbero, tutte insieme, costituire una SGR (società di gestione del risparmio) per alimentare, anche finanziariamente, le start up promosse da giovani menti creative;
  • Le medie imprese umbre di eccellenza potrebbero svolgere un ruolo di tutorship per giovani start up, anche ospitandole all’interno delle loro strutture immobiliari e interagendo con esse quotidianamente in modo da favorire una positiva e reciproca contaminazione;
  • La Regione potrebbe rafforzare gli strumenti finanziari attuali, che appaiono, a mio modesto parere, ancora piuttosto insoddisfacenti, anche favorendo l’assistenza di possibili e qualificati advisors a favore di queste start up;
  • L’Università potrebbe promuovere, di concerto con la Regione e alcune istituzioni finanziarie, possibili accordi di programma, incentivando taluni suoi docenti particolarmente qualificati a favorire la nascita di nuove imprese o l’arrivo di laboratori di ricerca e sviluppo da parte di imprese multinazionali con i quali essi interagiscono;
  • Le banche potrebbero assolvere ad un ruolo di supporto non solo finanziario ma soprattutto relazionale favorendo l’interazione di queste start up nell’ambito di piattaforme relazionali nazionali o internazionali in termini di clienti o fornitori;
  • Il mondo associativo, soprattutto nella dimensione di quelle associazioni come Federmanager che uniscono forze dirigenziali, potrebbero assolvere a ruoli di assistenza nei confronti di questi giovani imprenditori;
  • L’Amministrazione Comunale potrebbe identificare un “progetto-bandiera” di tipo immobiliare, magari localizzato nel centro storico, per farlo divenire un innovation hub centrato sui giovani, la loro creatività e la loro voglia di fare impresa in tutti i settori, sviluppando spazi culturali e di interazione in termini di living lab;
  • La pubblica amministrazione, in senso lato, dalla sanità all’agricoltura e così via, potrebbe destinare un pro-quota nell’acquisto di beni e servizi a favore di start up create da giovani, non tanto per generare un mercato protetto rispetto alla concorrenza ma per supportarli nel “forgiare” le loro prime forze imprenditoriali;

E così via.

Insomma, un ecosistema culturale per favorire la nascita di start up da parte dei giovani è una sfida non solo necessaria, non solo equa, ma possibile e auspicabile, senza la quale è difficile tornare a pensare ad una “tripla elica” sinergica tra Università, città e mercato del lavoro.

E’ di tutta evidenza che queste suggestioni hanno bisogno di un grande patto per lo sviluppo tra tutti gli attori di questa piccola comunità regionale. Non arrendiamoci al destino ma costruiamo il nostro destino pensando alle nostre giovani generazioni!