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Luigi Fressoia: «Solo tornando a un’urbanistica libera da affarismo si può guardare con fiducia alla rigenerazione di Perugia»

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La Perugia che c’è e quella che verrà. Sono in ballo vari progetti, da Piazza Partigiani, a Monteluce, all’ex Tabacchi, alla stessa Fontivegge e via dicendo, destinati a cambiarne il profilo.
Dei suoi “mali” e delle sue potenzialità, ne parliamo con l’architetto Luigi Fressoia, presidente di Italia Nostra Perugia, per cercare di comprendere quale potrebbe essere la città futura.

Partiamo da Monteluce
«Ogni quartiere ha la sua storia, la sua individualità, le sue ricette. Monteluce era afflitta da ipertrofia dovuta alla presenza del Policlinico, comunque in un contesto architettonico tutto sommato corretto poiché l’ospedale nella sua genesi e nel suo sviluppo aveva avuto tempo di metabolizzarsi: il problema era invece urbanistico, di raggiungibilità e spazi. Adesso vi è stato fatto questo recente intervento radicale, di una volumetria triplicata rispetto a prima, che suona concepito con logiche non di rigenerazione urbana bensì di mera speculazione finanziaria e immobiliare.
C’è un  ufficiale redatto dalla consigliera regionale 5Stelle Grazia Carbonari (che non risulta essere stato contestato né mediaticamente né giudiziariamente), nel quale grazie a paziente opera di ricostruzione mediante faticoso accesso atti, sono state ricostruite le fasi spaventose di questa vicenda, dove si comprende bene come gli immobili pubblici accumulati nei secoli dall’ospedale (per un valore contemporaneo di 53 milioni di euro), siano evaporati, svaniti nel nulla nel giro di un decennio, fagocitati dai meccanismi di una manovra verosimilmente organizzata e gestita da specialisti nazionali e internazionali.
Tutto mediante il passaggio decisivo della “cartolarizzazione” degli immobili storici dell’ospedale, ovvero loro trasformazione in “azioni” di un apposito “fondo” finanziario, creato ad hoc. Oggi le azioni di quel fondo valgono zero! La nuova Monteluce dal suo canto fa letteralmente pena nell’architettura, nell’edilizia, nell’urbanistica. Un fallimento peggiore non era umanamente immaginabile. Le facoltà di architettura dovrebbero portarci gli studenti del primo anno».

Come è nata la vicenda?
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Negli anni ’80 la politica regionale individuò la necessità di costruire ospedali nuovi nelle due maggiori città della provincia, il Monteluce di Perugia e il San Giovanni di Foligno. Il secondo in effetti era ancora in un immobile del centro storico; quello di Perugia invece già nel Novecento, sviluppandosi su Monteluce, aveva rinnovato e adeguato l’antico insediamento di Via Oberdan. Ma si può dire che in tale primo momento gli appetiti della politica erano di tipo classico: il denaro pubblico degli appalti per il Silvestrini e per il nuovo San Govanni. E alta volumetria da piazzare sul mercato immobiliare, che remunerasse abbondantemente. Poi in un secondo momento è venuto approccio diverso, quello della finanziarizzazione. Che ha dato luogo, si può pensare scientemente fin dall’inizio, al tracollo del fondo predetto».

Chi ne è l’artefice principale?
«Tra i massimi artefici, a leggere le carte riassunte dalla Carbonari, sono l’ex presidente regionale Lorenzetti e l’assessore Riommi. Non solo questi due ovviamente bensì molti altri, il rettore e i dirigenti apicali degli enti coinvolti, Regione, Comune, Università, Enti sanitari. Molto probabilmente sotto input della politica, cioè dei partiti, molto probabilmente a livello nazionale. Ma non può tacersi che proprio con l’ingresso dei due folignati negli anni ’90, il San Giovanni viene scorporato dall’operazione, lasciando che solo l’ospedale perugino finisse nel tritacarne. Insomma solito affarismo politico ma con ciliegina campanilista. Come si vede non ci facciamo mancare nulla. Perugia non fu difesa da nessuno; il suo sindaco, uno di Umbertide che nella sua lunga carriera politica non ha nascosto l’antico odio della campagna contro la città, identificata col centro storico “dei padroni” di cui Monteluce fa parte (certo non identificata con le informi periferie di palazzoni di cui si compiace), non mosse dito a differenza dei due folignati».

Parole pesanti
«Perché scorporarono dall’operazione il San Giovanni? A ben guardare, Foligno nel frattempo il suo nuovo ospedale se lo è ben costruito. Ma fuori dell’originaria operazione economica. E’ legittimo supporre che i due abbiano ben capito che stando dentro la finanziarizzazione, i beni secolari sarebbero stati ingoiati e perduti, quindi lasciarono nel tritacarne solo Perugia, notoriamente non amata da molte città orgogliose della provincia, così che comunque anche gli appetiti nazionali (e relativi ordini di partito) risultassero soddisfatti».

Per arrivare a che cosa?
«Che se prima l’intera area soffriva di ipertrofia, ora il nuovo insediamento è nato morto. Dunque oggi siamo in presenza di obbrobri, irrazionalità e insensibilità bestiali. Per esempio l’area di ingresso, in Piazza di Monteluce, sembra fatta apposta per allontanare, per dissuadere dall’entrare, dal varcare l’antico portone, peraltro consunto e non restaurato: il pavimento penoso in asfalto, gradini sbrecciati e arredi rovinati, la spianata dell’ex parcheggio ricettacolo di robacce, erbacce, catene e plastiche, squallore e miseria indicibili che circondano relegano e umiliano il bel loggiato ottocentesco sulla destra della facciata».

Effettivamente anche superata la soglia le cose non cambiano molto.
«Appena si entra abbiamo ruderi di archeologie medievali, una roba fatta tanto per fare, tenuto male, sporco… Poi c’è la nuova piazza, che invece di essere pavimentata di pregio è abbondantemente un grigliato metallico per dare areazione ai locali sottostanti, sai che goduria per i tacchi delle signore… Cui fanno da cornice gli edifici con quell’architettura che voleva essere creativa, di impronta nordeuropea; meritano qualche considerazione. A vincere l’appalto fu uno studio tedesco, per cui gli edifici sono caratterizzati da quegli stilemi che tra le nordiche brume fanno un certo effetto e hanno pieno senso, ma che trapiantati su un ambiente storicizzato come questo nostro risultano banalizzati, ridicolizzati e poi penosi, del tutto velleitari e comunque ininfluenti. Ma il fallimento maggiore è urbanistico: la piazza è vuota, priva di vita. Quando si è cominciato a costruire già c’era crisi fortissima del settore immobiliare, chi volete che andasse a comprare in massa quegli appartamenti? Siccome ben lo sapevano che non ci sarebbe stato mercato, ecco le solite truppe di soccorso (già sperimentate al centro direzionale di Fontivegge): la politica locale vi trasferisce a forza propri uffici pubblici, due assessorati, uno studentato e la Clinica Portasole, quest’ultima l’unica che porta un po’ di sangue. Ma è solo una flebo; peraltro il comune fino poco tempo fa parlava di accorpare gli uffici, non si sparpagliarli ulteriormente. Nonostante il supermarket e la palestra che lavoricchiano, tutto si mostra in evidente desolazione. L’idea di piazza, la gloriosa piazza italiana, parola non a caso internazionale, è lontanissima».

Ma perché siamo arrivati a questo, che succede all’Italia?
«Responsabilità della politica cioè dei partiti, la cui ossessione è vincere le elezioni e a tal fine ha il solo scopo di comprare il voto mediante clientelismo tramite denaro pubblico: appalti, assunzioni, incarichi, comunque spesa pubblica. Le città, le regioni, la nazione, sono governate da cupole che rispondono a logiche di affarismo puro, cupole come camera di compensazione dei poteri forti (industrie ammanicate, consorterie, etc.) che negli anni hanno “comprato” pezzi di stato e ne dispongono a piacimento, neo-feudalesimo. Concepiscono l’ente pubblico, il suo denaro e i suoi poteri, esclusivamente per confezionare affari privati. I media, adesivi al sistema, esaltano la contrapposizione tra pubblico e privato… Il singolo politico o il singolo funzionario non funzionali a questo sistema vengono fatti fuori, sono derisi. La democrazia in Italia ha fallito, ha diffuso capillarmente convenienze personali sia pure di massa ma a carico del bene comune».

Quindi a Perugia quale progettualità urbanistica abbiamo?
«Manca, perché non sta a cuore ai decisori. Al suo posto c’è il business politico/imprenditoriale tramite pseudo imprese collaterali alla politica (dedite a succhiare ricchezza non certo a produrla); si concepisce l’intervento urbanistico pianificato non come ridisegno e miglioria bensì come occasione, business, saccheggio; non producono oasi di buona qualità bensì sforacchiamenti di tessuti urbani preesistenti che un proprio equilibrio ce l’avevano. Il triste bilancio è sotto gli occhi di tutti a Fontivegge, Via Palermo, Monteluce, De Megni; e i Tabacchi non saranno diversi. Nel mondo civile il legittimo profitto delle imprese sta dentro un disegno urbanistico efficace, di convenienza macroeconomica. Qui no. L’ex Carcere di piazza Partigiani pare candidarsi ad analoga operazione: trasferirvi uffici -tramite demolizione o profonda alterazione del manufatto storico, invece di aprirlo al quartiere- con contestuale ennesimo “picconamento” dell’Acropoli portandone via importanti uffici giudiziari, altro che rigenerazione urbana. Ovvio che l’unico faro vero sono i 60 milioni promessi dal ministero. Ugualmente sarà il Metrobus da Castel del Piano a Fontivegge, un nuovo fallimento inevitabile come il Minimetrò, ma imposto dagli equilibri ministeriali».

Così com’è successo anche per altri investimenti minori
«Ormai le opere pubbliche si fanno perché c’è un finanziamento. Per esempio la biblioteca degli Arconi; erano riusciti a intercettare un finanziamento regionale di tre milioni e mezzo destinati alle biblioteche, dunque si è pensato di farne lì una nuova, ma senza chiedersi se davvero ce n’è bisogno e se ci sono le risorse per arredarla e gestirla. Infatti finiti i lavori è li ferma da due anni. Il meccanismo consolidato della finanza straordinaria (bandi europei, ministeriali, regionali, etc.) è micidiale, attira le mosche e tra l’altro riempie i cassetti di progetti che non verranno realizzati. Serve tornare a finanza ordinaria, ove i comuni hanno risorse certe e regolari con le quali realizzare progetti necessari e meditati».

E tutto questo nonostante sia cambiato il colore delle giunte?
«Questo centrodestra che governa si sta rivelando esattamente come i precedenti. Evidentemente la cupola non scherza. Appena hanno a che fare con un nuovo interlocutore politico avvicinano il soggetto e lo diffidano o minacciano dal fare cose “nuove” e “strane”».

In Architettura si parla di Rigenerazione urbana, che di per sé significa demolire per ricostruire.
«Rigenerazione urbana è un concetto positivo vista la qualità del costruito dagli anni ’70 i poi. Dipende però dove viene applicato».

Ma qui sembra che non venga adottata in nessun modo. Basti vedere la situazione del quartiere davanti alla Stazione.
«Per Fontivegge è ben stata scomodata la dizione Rigenerazione Urbana. Ma solo per confondere le acque e coprire il meccanismo consolidato. E’ evidente che la prima cosa da fare era uno studio, un’analisi, una diagnosi, un’anamnesi e una eziologia (parafrasando dalla medicina, cioè individuare la malattia, la sua genesi e le sue cause), prima di parlare della terapia. Per Fontivegge tutto ciò è mancato, si sono semplicemente trovati 16 milioni del Ministero delle aree urbane e dunque ci si sta prodigando a un po’ di arredo urbano: pensiline, fontane, forse distributori di preservati e poco altro. Ma col nome altisonante di Rigenerazione Urbana».

Una volta si diceva “una città a misura d’uomo”. Perugia lo è stata. Si viveva bene, con un centro pieno di perugini che oggi lo hanno abbandonato. Sta diventando una situazione triste. “Italia Nostra” cosa intende fare?
«Be’, notoriamente possiamo solo dire o scrivere. Faremo comunque due convegni uno sul Centro Storico, l’altro sulla città intera, consapevoli -per quest’ultima- che Perugia oggi è una conurbazione, ovvero un’unica città sia pure dai contorni sfrangiati e discontinui con larghe pause di campagna, che comunque comincia a Magione e finisce a Santa Maria degli Angeli; da Villa Pitignano a San Martino in Campo, Deruta, Torgiano; un’unica area metropolitana che ingloba centri storici capoluogo come Corciano ed Assisi. Può piacere o no ma è così. Il discorso sul centro storico è relativamente facile, più complessa è questa comprensione delle reali dimensioni odierne di Perugia».

Può essere più preciso?
Merita di essere chiamata area metropolitana non per grandeur di provincia bensì perché effettivamente le relazioni socioeconomiche più forti si muovono su tale scenario vasto. Però è area (urbana/metropolitana) così dilatata ed estesa che altrove contiene due milioni di abitanti.
Va da sé che uno spazio così dilatato impone costi enormi solo per poter mantenere servizi essenziali quali acqua, energia elettrica, fognature, rifiuti, strade e mezzi di trasporto pubblico, che infatti qui è sostanzialmente fallito: Perugia risulta l’unica città italiana ed europea che ha abolito di fatto il trasporto pubblico; non di diritto, per carità, che quelle aziende continuano a costare un occhio della testa, ma nessuno usa i mezzi pubblici. Tempi di attesa troppo lunghi e scarsa frequenza dei mezzi».

Ecco dunque il problema principe dei Trasporti Pubblici
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E’ ovvio che più la città è dilatata e più il mezzo di trasporto pubblico acquista importanza poiché è l’unico elemento che può fungere efficacemente da collante. Oggi pullman e treni girano a vuoto, il Minimetrò è ininfluente, la fcu è semichiusa, fs non fa servizio urbano pur avendo abbondanza di binari che solcano (ma non servono) molti quartieri, periferie, cittadine. La gestione di queste aziende è rivolta a chi ci lavora dentro, non alla qualità del servizio. La gente è costretta a muoversi con l’automobile, una a testa, fenomeno che rivela la mancanza di servizi comodi e appetibili. Mali e disagi su cui pesa quest’urbanistica troppo sfrangiata e discontinua, spappolata, causa di diseconomia strutturale sia familiare sia dei conti pubblici. Però, ci tengo a dirlo, da questo generale disvalore, agendo con intelligenza, la redenzione è possibile, una sostanziale miglioria è possibile. Rafforzare e legare tutti questi frammenti urbani dispersi tramite metropolitana regionale di superficie. Anche completamenti e densificazioni urbanistiche».

Dunque da dove ripartire?
«Da analisi realistiche, generali e puntuali. Abbiamo sopra delineato questa nostra epoca di politica come malaffare (malavita istituzionale), specie in urbanistica e opere pubbliche, ma non sempre e non solo è stato così. In primis capire come ci si è arrivati. Negli anni del dopoguerra (ma a dire il vero ancor più prima della guerra) il piano urbanistico veniva preparato con un altro spirito. C’era ottimismo, una visione positiva forse positivista, comunque fiducia e speranza nel futuro. Cosa ha tradito tutto? Da un lato preponderante lo scivolare della democrazia nella mera conquista del consenso, come anzi accennato; però hanno pesato molto dottrinarismi che hanno riempito l’urbanistica di burocrazia e pretese ideologiche, il compromesso reale è stato trasformarla nel più potente strumento di dominio/ricatto politico elettorale; qualità urbana e territoriale zero, ma voti e soldi tanti.
Almeno il mondo della cultura urbanistica deve ripartire dai propri errori e puntare dritto alla qualità sia della città sia del territorio esterno. Coniugare le esigenze della modernità col rispetto del paesaggio, dei centri storici, dei beni naturali e culturali. Poi il tema cruciale della mobilità, come dicevamo, una metropolitana regionale che unisca la conurbazione. C’è bisogno di tornare a parlare, ragionare, analizzare, confrontarsi col mondo vasto, immaginare, progettare. Scrivo spesso che da tempo siamo tornati allo Stato Pontificio, conformismo e paura. E’ ora di rompere con idee chiare».

Quale futuro allora per Perugia?
«Può diventare di segno positivo. Penso all’Elce, a Ponte San Giovanni, a Ponte Felcino, a San Sisto, Ponte della Pietra e tutti gli altri: a ben vedere hanno potenzialità enormi. Sono convinto che più alto è il disastro e più può essere grande e inaspettato il miglioramento che se ne può trarre. Consapevoli che la mente umana è sempre proiettata al meglio di sé e che la gente segue il proprio interesse. Anche dai casini urbanistici più grossi può venir fuori qualcosa di buono».

Luigi Fressoia, lei è un architetto. Lei sa che il contesto in cui si vive è importante, perché ha dei riflessi e dei riscontri su tutto ciò che si vive quotidianamente, vale a dire sulle idee, sulle scelte, sui progetti futuri. In altri termini la cornice gioca un ruolo fondamentale. È d’accordo?
«Non sono convinto che il contesto educhi. Piacerebbe ma la realtà smentisce. Penso al centro storico di Gubbio. È un assoluto. Penso a quella piazza pensile a cavallo fra quattro quartieri, soluzione geniale per accontentarli tutti. Oggi quello spazio è semimorto tranne il giorno della Festa e c’è invece una Gubbio nuova, viva, vivissima, vera e quotidiana -gente, abitazioni, scuole, servizi, negozi- nientemeno in via Leonardo Da Vinci, dietro lo stadio, peccato che urbanisticamente e architettonicamente è un disastro in sé, oltre che dimentica della città storica. Chi ha voluto e realizzato questo disastro? Ovvia la riposta: i figli del centro storico, gente che nacque, abitò e crebbe nel glorioso centro storico. Segno evidente che non insegnò niente. O quanto meno c’è tutta una modernità del dopoguerra ancora non metabolizzata».

Comunque anche buone prospettive lei vede…
«Sì certo, ma prima bisogna liberarsi di quell’affarismo politico/istituzionale. Come si fa non lo so ma bisogna farlo. Sennò sono solo chiacchiere. Ritrovare i canali di un’economia vera e non di saccheggio del denaro pubblico, tornare al pensiero autentico e onesto, a un’urbanistica che non faccia arrossire. Ben venga il profitto di impresa ma non in danno del bene comune».
     Francesco Castellini