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Coronavirus, con il clima caldo tende a scomparire

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Si moltiplicano gli studi e le osservazioni sul rapporto clima-pandemia, che sembra davvero essere molto forte.
Sembrerebbe appunto che un clima freddo e secco sia il più adatto al diffondersi del Coronavirus, mentre sopra i 18 gradi ed un clima umido il virus rallenterebbe la sua corsa.
A riguardo sono sempre più numerosi gli studi che convergono sull’ipotesi che il Covid-19 si diffonda maggiormente con una temperatura fresca e asciutta rispetto ad un clima caldo e umido. Lo stesso fenomeno era noto per il virus della Sars.

 Una tesi peraltro già espressa su questa testata dal dottor Enrico Secondari, internista presso l’ospedale di Foligno, che già qualche giorno fa avanzava l’ipotesi di aver presumibilmente scoperto la terapia per debellare il Coronavirus.

Lui lo spiegava così: “Attualmente, se si esclude il supporto respiratorio e anestesiologico non vi è nessuna evidenza scientifica di una terapia efficace per il coronavirus. Non sono efficaci antibiotici. Non vi è nessuna evidenza scientifica, se non l’esperienza personale di qualche medico cinese, che il cocktail di farmaci antivirali possa avere una sua efficacia. E cosa dire degli immunosoppressori, farmaci comunque dai sicuri effetti collaterali per una malattia infettiva in cui l’unica difesa sta nell’efficienza del sistema immunitario, tra l’altro, difficilmente attivi in una malattia acuta?
È giusto in questa fase fare dei tentativi, pur sapendo che probabilmente saranno vani. Anche se l’Oms, utilizzando tuttavia il condizionale, ha dichiarato che, verosimilmente, a differenza degli altri virus respiratori il covid 19 non dovrebbe essere sensibile al caldo estivo, molti virologi hanno affermato che è necessario aspettare l’estate per esserne sicuri. Ma perché attendere l’estate con 200 decessi al giorno in una Italia segregata in casa? A mio avviso tutti i tentativi sono leciti soprattutto quando privi di effetti collaterali.
 La mia proposta è la termoterapia. L’idea è quella di ricoverare una decina di pazienti volontari positivi al coronavirus e paucisintomatici in un reparto con una temperatura di 40 gradi e con la giusta umidità (?) ed eseguire a giorni alterni tamponi per valutare se si riduce il periodo di contagiosità, ovvero sei i tamponi si negativizzano in tempi brevi (es. 3 o 4 giorni).
Quindi se i risultati dovessero essere incoraggianti potremmo proseguire l’esperimento utilizzando pazienti con sintomi lievi, evitando all’inizio quelli già in fase avanzata di malattia o con febbre elevata. Perché non tentare? Il perché è chiaro. Per i medici esistono solo farmaci anche quando quasi sicuramente inefficaci, ma pur sempre dei farmaci. Provando questo esperimento, anche una risposta negativa sarebbe pur sempre una risposta che andrebbe a confermare quanto sospettato dall’Oms. Se invece, riproducendo il clima più afoso delle giornate estive all’interno di una struttura ospedaliera, scoprissimo che la termoterapia fosse realmente efficace e che quindi il caldo fosse realmente il tallone d’Achille di questo virus come, d’altra parte, lo è per la gran parte dei virus respiratori, allora aspettando l’estate avremo sulla coscienza tante vite umane e tutto il resto”.


Una tesi ora avallata anche da un servizio pubblicato sul Corriere della Sera che dà spazio ad una analisi recente effettuata dal Mit di Boston sui dati raccolti dalla Johns Hopkins University di Baltimora, dove si evidenzia come il numero massimo di casi di Coronavirus si sia verificato in tutte quelle zone con temperature comprese fra i 3 ed i 13°C.
Al contrario, Paesi con temperature medie superiori a 18°C hanno visto meno del 5% dei casi totali.
L’esempio è lampante negli Stati Uniti, dove i Paesi del sud (Texas, Florida e Arizona) hanno registrato finora un tasso di crescita più lento rispetto agli stati del nord (come Washington, New York e Colorado).
I dati emersi in altre due ricerche sembrano essere lampanti: nella prima, il 95% dei casi positivi a livello globale si è verificato con temperature comprese tra i -2 ed i 10 gradi in condizioni asciutte. La seconda, pubblicata da un team guidato da ricercatori dell’Università di Beihang, in Cina, ha esaminato la situazione nelle città cinesi scoprendo che, nei primi giorni dell’epidemia, a gennaio, prima di qualsiasi intervento del governo, le città calde e umide vedevano un tasso di diffusione più lento di quelle fredde e secche.
Altri ricercatori hanno sottolineato come, tra l’11 e il 19 marzo, si sia osservato un aumento di circa diecimila contagi in regioni con temperatura inferiore ai 18 gradi: la relazione tra il numero di casi legata a detereminate condizioni di temperatura ed umidità è forte ma non si può sapere quale fattore ambientale sia più importante, potrebbe essere uno dei due o entrambi.

Risultati non scientifici
Bisogna, comunque, prestare cautela e non prendere questi dati come oro colato anche perchè non esiste, per adesso, nessun riscontro scientifico oggettivo. La correlazione tra diffusione e condizioni climatiche potrebbe essere legata ad altre ragioni come le decisioni dei governi, le linee di contagio o la mancanza di test da sottoporre alla popolazione.
Marc Lipsitch, direttore del Center for Communicable Disease Dynamics presso la Harvard School of Public Health, predica calma. “Anche se possiamo aspettarci modesti ribassi nella contagiosità di Covid-19 in condizioni climatiche più calde e umide, non è ragionevole aspettarsi che questi ribassi, da soli, rallentino la trasmissione abbastanza da creare l’abbassamento della curva”.

L’estate nostra alleata?
Per l’Italia e l’Europa non cambia granchè perchè le uniche misure volte a contrastare la pandemia, che sembrano funzionare, sono quelle di isolamento e distanziamento sociale, oltre alla chiusura quasi totale delle attività produttive. Se, però, il clima avesse davvero un ruolo importante in tutta questa storia, si potrebbe sperare che con l’arrivo dell’estate la natura sia a nostro favore.