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“25 aprile 2023: ennesima ricorrenza priva di memoria condivisa”

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Non si può dare memoria e identità condivisa, se non si ripercorre e si ricompone in spirito di verità la storia della nostra Repubblica nata sessanta anni fa

A causa del perdurare degli anni dell’odio, ingiustificato, incomprensibile perché c’è un avversario, se non nemico da abbattere e prevalere cancellando la storia. Ed invece basterebbe fare leva proprio sulla storia per rendersi conto che cos’è il 25 aprile: una festività nazionale, di tutti gli italiani per celebrare la liberazione, la sconfitta cioè del fascismo ad opera degli anglo-americani, a cui si affiancarono resistenti, militari e civili, dando un contributo anche simbolicamente e moralmente importante. Dunque, una ricorrenza in cui tutti gli italiani possono riconoscersi.

Ci si porti alla  Resistenza, o meglio, alla storia della Resistenza, per rendersi conto che fu una guerra irregolare, ( per alcuni anche in violazione di quanto disposto dalla IV Convenzione dell’Aja del 1907  e da quella di Ginevra del 1927), intrapresa in Italia all’indomani dell’annuncio della resa incondizionata alle forze anglo-americane, con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Fece seguito un risvolto particolarmente tragico. Sconfitti sul campo, i soldati, in specie dell’Esercito allo sbando, si battono dietro le linee contro un nemico, (già alleato), numericamente più forte, con azioni rapide (incursioni, saccheggi, guerriglia). Numerose le formazioni: il Fronte militare clandestino, al comando del generale Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Giustizia e Libertà, coordinata dal Partito d’Azione, Giacomo Matteotti, del Partito  Socialista di Unità Proletaria, Brigate Fiamme Verdi, nate ad iniziativa di alcuni ufficiali degli alpini, legatesi, poi, alla Democrazia Cristiana, Brigate Osoppo, legate alla Democrazia Cristiana e al Partito d’Azione, Bandiera Rossa, comuniste trotskiste, Gruppi d’azione patriottica del Pci, comunisti staliniani, ed altre autonome ma politicamente monarchiche e badogliane. Formazioni e gruppi cui vanno aggiunti tantissimi militari, compresi 2500 carabinieri rastrellati a Roma il 7 ottobre ’43, deportati nei lager di Austria, Germania e Polonia, per aver rifiutato di collaborare con i nazisti. Tanti, nonché variegati, i movimenti partigiani ad essere orgogliosi e ad andare fieri di un ricco patrimonio, come quello della Resistenza, consapevoli, comunque, che tutti contribuirono alla vittoria degli anglo-americani, e non, come si vorrebbe continuare a far credere, ad opera dei comunisti del Pci, staliniani.

  Anche la resistenza “politica” si organizza a partire dal 1943, ma per le prime, importanti azioni bisognerà attendere il 1944. Da una parte, dunque, i soldati e dall’altra i civili. Spesso in disaccordo fra loro.

Sebbene, infatti, la parola d’ordine dei partiti del CLN fosse “cooperazione”, nessuno di loro perse di vista la prospettiva di conquistare un peso nella scena politica nazionale del dopoguerra. Tant’è che al termine del conflitto ciascuno rivendicò un ruolo nella guerra di liberazione, nonostante quest’ultima fosse stata ben poco determinante   per  la vittoria degli anglo-americani.

Come  sottovalutare che l’Italia al trattato di pace fu umiliata e considerata come nazione sconfitta, connotata da una “resa incondizionata”? Come dimenticare che la lotta partigiana aveva palesato le profonde divisioni dell’Italia che pur si preparava a costruire la Repubblica, divisioni dovute alla paura da parte delle realtà liberali e conservatrici nei confronti dei comunisti? Fu necessario ricorrere ai ripari.

Nel 1947, infatti, il generale Raffaele Cadorna, uno dei dirigenti del CNL, costituiva in seno al Corpo volontario della libertà una unità di intelligence con il compito di monitorare i comunisti in vista delle elezioni del 1948. Non solo. La stessa Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI), fondata nel 1945, fu soggetta a scissioni interne sin dal 1947: in quell’anno, il vicepresidente Enrico Mattei ne uscì per fondare la sua Associazione nazionale partigiani cristiani e nel 1948 la componente di Ferruccio Parri la abbandonò per costituire una propria sigla. Particolari emblematici, eloquenti che si sottovalutano, anzi si dimenticano.

Significativo l’intervento di Benedetto Croce all’Assemblea costituente in occasione della ratifica del trattato di pace, il 27 luglio 1947: “Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente”.

Parole di Croce a voler chiarire che nessuno vinse il 25 aprile del 1945. L’Italia era libera, certo. Ma a che prezzo? Il Paese era distrutto politicamente ed economicamente. Gli italiani mai così divisi. L’armistizio dell’8 settembre 1943, infatti, aveva spaccato il Paese in due: 160mila persone avevano deciso di aderire alla Rsi (Repubblica sociale italiana), 130mila alla Resistenza. In mezzo, gli indecisi, coloro che stavano da una parte o dall’altra senza prendere apertamente posizione; quelli che, seguendo la più italica delle virtù, decisero di stare alla finestra a guardare.

Furono venti mesi, dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945, di guerriglia, rastrellamenti e, anche, di violenza gratuita. Da una parte e dall’altra. Solo che per lungo tempo si parlò solamente dei crimini di fascisti e nazionalsocialisti. Comprensibile e scontato, per carità. La Storia, come è noto, la scrivono i vincitori a proprio gusto e, soprattutto, consumo. Ma, la verità è il tempo a scriverla.!

La necessità di un” mito” su cui fare leva.

La neo Repubblica aveva bisogno, così come tutte le ere politiche, di un “mito” sul quale poggiare e quel “mito” doveva essere, per forze di cose, quello della Resistenza.

Ed è proprio quello che accadde. La Resistenza fu un fenomeno di minoranza (come detto vi parteciparono solamente 130mila persone contro i 160mila volontari della Rsi,) e solo dopo la fine della guerra divenne un’epopea. Si cercò in tutti i modi di cancellare i crimini compiuti dei partigiani. Per anni non si parlò, tranne in rare occasioni, del triangolo della morte in Emilia o delle foibe sul confine orientale. La Resistenza non poteva esser macchiata da alcun crimine. E questo almeno fino al 2003, quando Giampaolo Pansa scrisse “Il sangue dei vinti”. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile. Nella prefazione, il grande giornalista piemontese scrive: “Se scruto dentro di me, m’accorgo che sono diventato meno manicheo. Prima ero incline a dividere il mondo in amici e nemici. E a distinguere con intransigenza il bene dal male. A proposito della guerra civile, il bene era la Resistenza, il male i fascisti. Oggi non sono più sicuro di questa spartizione netta. Parlo della storia delle persone, naturalmente. Non della grande storia, ossia dello scontro fra democrazia e totalitarismo”. Ed è questo il merito di Pansa. Di aver dimostrato che sotto la grande Storia, dove è facile distinguere il bene dal male, esistono le vicende dei singoli, di coloro che, per i più svariati motivi, decisero di combattere da una parte o dall’altra. L’immagine più drammatica, forse, ci è data dai sette fratelli Cervi che furono brutalmente sterminati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, e i sette fratelli Govoni, seviziati e massacrati l’11 maggio del 1945, a guerra finita, dai partigiani della Brigata Paolo. Due famiglie distrutte per mano dell’odio.

Pansa, per il suo “Il sangue dei vinti” e, però, non poteva non essere “processato”, non certo dal Tribunale, ma dai suoi ex compagni che, a suo tempo, processarono anche Renzo De Felice, il più grande storico dell’era contemporanea. Dunque, tutti alla sbarra ideologica per aver detto verità scomode e svelato anche delle zone d’ombra dell’antifascismo.

Attentato di via Rasella – eccidi alle Ardeatine

Si è portati a ritenere che, per della documentazione lacunosa o addirittura scarsa inerente ad eventi più difficili, non sia possibile ricostruirli. Certamente non riguarda fatti di cui si è impadronita la ideologia politica, perché previa manipolazione, poi fissati in dogmi, non è semplice soffermarsi per analizzarli a dovere anche per la scomparsa dei diretti testimoni. Attiene, invece, ad uno degli eventi più eclatanti legati alla lotta partigiana di Roma nel corso del secondo conflitto mondiale: l’imboscata di via Rasella del 23 marzo 1944, di cui si è cercato di non svelare le reali motivazioni per precludere si avanzassero giudizi sia sulla relativa carneficina che sulla consequenziale rappresaglia nazista pur prevedibile. Alle polemiche di ogni genere, inevitabili, anche tante le discussioni sull’opportunità di quella micidiale azione partigiana e, ovviamente, sulla rappresaglia alle Ardeatine, connotate da racconti sempre lontani, o quasi da non rendere certo giustizia alle vittime. Non solo. Perché episodi clamorosi, rilevanti non potevano che produrre delle controversie sia nella popolazione che all’interno della Resistenza stessa; una contesa inesauribile, una storia infinita destinata a ridestarsi ad ogni occasione con rinnovata animosità. Una particolarità, questa, tutta italiana, per ragioni molteplici.

In molte zone dell’Italia, e a Roma in particolare, le formazioni partigiane non furono ritenute come un autentico esercito di liberazione investito di tutta l’autorità di un esercito regolare. E questo non tanto perché mancassero di una piena e univoca investitura statale, ma perché gli eventi da cui fu travolto il paese non fecero sentire la lotta ai tedeschi come una scontata imperiosa necessità. In Italia i germanici erano arrivati come alleati e la lotta contro di essi seguì e non precedette l’arrivo degli anglo-americani sul territorio nazionale. Il significato antifascista del cambiamento di fronte fu patrimonio di una minoranza, molti altri, invero, non ne capirono neanche il senso se non come l’accelerazione della fine della guerra: l’atteggiamento della maggioranza degli italiani fu l’attesismo. E anche a Roma, dove fino alle Ardeatine i tedeschi non si erano certamente comportati come invasori, la Resistenza fu opera di un’eroica minoranza. E’ dunque la forza d’inerzia del contesto poco resistenziale della Capitale a spiegare in gran parte la vitalità della polemica su via Rasella. Oltre naturalmente all’uso politico che se ne è fatto. Le controversie riguardarono, anzitutto, la convenienza degli attentati, se cioè i costi in termini di vite umane non fossero troppo elevati rispetto al danno provocato al nemico. Ad essere messa in discussione fu la stessa legittimità dell’azione partigiana non in termini di legittimità giuridica, in realtà abbastanza superflua ma, soprattutto, in termini di legittimità morale per giustificare gli atti di guerra che sostanziavano la lotta. Ma è proprio l’aspetto della legittimità morale ad essersi rivelato il punto dell’operazione più cedevole al dubbio e alla denigrazione: gli autori dell’agguato si dovevano o no presentare, costituirsi ed offrire la loro vita per evitare la rappresaglia? Sintomatica la nota dell’Osservatore Romano, in cui, subito dopo l’eccidio alle cave, ”si compiangevano le 335 persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto”.

Senza dimenticare che la Resistenza romana era fatta di varie anime (come sostenuto da Alberto Bensoni: monarchici, azionisti, socialisti, comunisti e altri movimenti antifascisti), che si ponevano l’obiettivo di aver un ruolo al momento dell’arrivo a Roma degli anglo- americani che si riteneva prossima. Non esisteva una linea comune in detti movimenti e, prima della svolta di Salerno non c’era una disciplina condivisa, i gruppi operavano con proprio conto e spesso in contraddizione uno contro l’altro. Quello che è certo è che l’idea di aspettare che gli anglo-americani liberassero Roma dispiaceva ai comunisti. Pertanto, l’azione di via Rasella del 23 marzo va inquadrata in quest’ottica e ritenuta un atto che voleva colpire gli attendisti e dare un segnale in un’altra direzione, affinché la cittadinanza si mobilitasse più attivamente contro l’occupante e si accendesse la miccia di un’occasione rivoluzionaria. Una volta vanificate le mistificazioni protrattesi negli anni e a tutto campo, ormai prive di mordente, hanno contribuito a svelare aspetti rilevanti di quell’evento “eclatante”, da fare presente che: 

–  l’imboscata attuata da alcuni gappisti espressione del partito comunista italiano non fu voluta né dagli altri gruppi della Resistenza né dagli anglo-americani che chiesero esplicitamente di non farla;

– gli attentatori speravano che con l’agguato e soprattutto con la successiva rappresaglia di scatenare una rivolta popolare che avrebbe agevolato la presa del potere. Aspetti che, consegnati alla Storia sia proprio la Storia, lo si spera, a riproporli alle generazioni future. 

A convalida di tali assunti, tra i documenti oggi a disposizione, sono soprattutto le intercettazioni delle comunicazioni telefoniche che testimoniano proprio la volontà dei partigiani gappisti di scatenare, grazie alla inevitabile rappresaglia nazista, la sollevazione della cittadinanza romana; ma Roma non prese le armi. E le divisioni germaniche potettero ripiegare in ordine ed evacuare la Città senza problemi. Ancora.

In auto, per recarmi a Roma, dal GRA sono solito immettermi sulla SS Flaminia per poi imboccare Viale di Tor di Quinto, e passare davanti alla grande Caserma che ha l’accesso imponente proprio su detto Viale. Viene spontaneo leggere il nome sull’arcata d’ingresso scritto a grandi caratteri “Salvo d’Acquisto” Medaglia d’Oro al Valore Militare, che sacrificò la sua vita il 23 settembre ’43, a ridosso dell’armistizio, per salvare quella di un gruppo di cittadini di Torrimpietra di Palidoro, a trenta chilometri da Roma sulla SS Aurelia, rastrellati a caso dai tedeschi, dopo che per un caso fortuito, lo scoppio di alcune bombe, uccisero due tedeschi. E, come non ricordare  i carabinieri Fulvio Sbarretti.Vittorio Marandola e Alberto la Rocca che il 12 agosto del 1944 diedero la vita, stroncata dalle armi automatiche tedesche,per salvare dieci innocenti ostaggi; così dicasi del Maresciallo Maggiore Vincenzo Giudice, comandante della Sezione della Guardia di Finanza di Marina di Carrara, nonostante si fosse consegnato per evitare l’eccidio di 71 persone, tra cui la moglie e i due figli, fu passato per le armi.

Onorificenza meritatissima per valori inequivocabili e concessa a chi si è fatto olocausto per salvare vite umane, un atto di abnegazione e di coraggio personale. Ma, ecco il non senso, mettere sullo stesso piano civile e militare il sacrificio dei suddetti martiri con gli attentatori di via Rasella, il cui atto dinamitardo provocava anche la durissima rappresaglia nazista (335 persone barbaramente trucidate), è inconcepibile. Visti questi due eventi nella loro essenza, appare evidente che i tedeschi furono spietati esecutori di una sentenza di morte che era stata scritta in via Rasella dai gappisti, dinamitardi, anzi, “terroristi”, (non certo “eroi”), come definiti da Giorgio Amendola nel 1968 alla Camera dei Deputati: “Molti di noi hanno fatto del terrorismo …… l’abbiamo fatto durante la resistenza, a via Rasella”.

L’evidente contraddizione etica, tra la stessa ricompensa per due atti incredibilmente distinti tra di loro, oltre che lasciarmi perplesso, disorientato, mi sottopone una serie infinita di domande e considerazioni, pur tenendo presente che la ricompensa agli attentatori di via Rasella era frutto dell’atmosfera che in Italia fu creato nel dopo guerra, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre ’43.

Ulteriore riflessione, se si vuole considerazione emblematica. Il 10 maggio 2006 viene eletto il successore di Carlo Azeglio Ciampi: Giorgio Napolitano, a lungo dirigente del Pci, ala riformista o migliorista, che ha fatto tutto il suo percorso dentro la sinistra, dentro, cioè, l’antifascismo. Il 15 maggio, a Montecitorio, di fronte al Parlamento riunito, il neo eletto presidente della Repubblica legge il suo messaggio d’insediamento. “ ( … ) A chi vi parla, chiamato a rappresentare l’unità nazionale, spetta semplicemente trasmettere oggi un messaggio di fiducia, in risposta al bisogno di serenità e di equilibrio fattosi così acuto e diffuso tra gli italiani. Sono convinto che la politica possa recuperare il suo posto fondamentale e insostituibile nella vita del paese e nella coscienza dei cittadini. Può riuscirvi quanto più rifugga da esasperazioni e immeschinimenti che ne indeboliscono fatalmente la forza di attrazione e persuasione, e quanto più esprima moralità e cultura, arricchendosi di nuove motivazioni ideali. Tra esse, quella del costruire basi comuni di memoria e identità condivisa, come fattore vitale di continuità nel fisiologico succedersi di diverse alleanze politiche nel governo del paese. Ma non si può dare memoria e identità condivisa, se non si ripercorre e si ricompone in spirito di verità la storia della nostra Repubblica nata sessanta anni fa come culmine della tormentata esperienza dello Stato unitario e, prima ancora, del processo risorgimentale.” Per poi, con esplicito riferimento alla Resistenza, sottolineare: “Ci si può – io credo – ormai ritrovare, superando vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni. Ci si può ritrovare – senza riaprire le ferite del passato – nel rispetto di tutte le vittime ( … ).”Zone d’ombra, eccessi e aberrazioni” parole con le quali Napolitano, ritengo, volle non solo osare, ma anche infrangere il tabù dell’agiografia resistenziale.

Siamo al 2023, al 79° anniversario per vedere enfatizzare contrapposizioni di parte. Che insegnamenti intendiamo dare alle generazioni a venire? A quando, scrollando di dosso la mistificazione e la ipocrisia, l’apertura della stagione della pacificazione? Certamente quando la Festa della Liberazione non sarà più prigioniera della sinistra, di certa sinistra.

Antonio Federico Cornacchia, generale dei carabinieri, in quiescenza