Una strage di operai morti nelle miniere di carbone e lignite
di Adriano Marinensi
La 2ª guerra mondiale era finita da poco (1945). In Europa, facevano brutta mostra le macerie ovunque, intere città distrutte dalle bombe e dalla furia degli eserciti. Milioni di vittime avevano affollato i cimiteri. Una decina di anni passati dalla conclusione del conflitto e c’era ancora tanto da fare. Occorrevano grandi quantità di materie prime. Per esempio, il carbone. Ne era ricco il Belgio. L’Italia invece era popolata di disoccupati (2 milioni) e di povera gente in cerca di sostentamento.
I due Stati stipularono un accordo, secondo il quale il nostro Paese avrebbe fornito la manodopera per l’estrazione del carbone e, in contropartita, ricevuto una notevole quantità dell’importante materiale, impiegato in molteplici attività industriali. Nello specifico, il trattato prevedeva l’immigrazione di 50.000 lavoratori italiani in Belgio, al ritmo di 2000 la settimana e, per ogni nostro connazionale, 200 chili di carbone al giorno.
Valigie di cartone ne partirono tante di più e, c’è da dire, non ebbero buona accoglienza umana e logistica. La vita nelle baraccopoli, ove abitavano pure molte famiglie, non fu affatto serena. A Marcinelle, come altrove. Marcinelle era un centro abitato a pochi chilometri da Charleroi, nella Vallonia belga. Vi esisteva una importante miniera di carbone, strutturata con diversi pozzi, ove vigeva una precaria organizzazione del lavoro, tipica di quei tempi, senza alcuna particolare tutela: la polvere di carbone colorava tutto e tutti. Facce nere e sconvolte emergevano, ad ogni turno, da quella sorta di oltretomba. Neri non per caso.
Un oltretomba che divenne, per tanti, proprio una tomba, quel maledetto giorno 8 di agosto del 1956 (c’è stato un recente ricordo solenne nel 57° anniversario della immane cataclisma). L’inchiesta stabilì che l’evento fu scatenato da un errore umano nel movimentare l’ascensore che portava all’esterno il materiale di scavo.. Risultarono tranciati un cavo elettrico e un tubo di lubrificante. Le scintille innescarono il violento incendio. Gravissimo il bilancio umano: 262 morti, tra i quali 136 italiani. Una delle maggiori disgrazie accadute in miniera nel XX secolo.
Il Corriere d’Informazione scrisse di un infortunio a quasi 1000 metri di profondità e del Re Baldovino accorso sul luogo del disastro. La copertina della Domenica del Corriere mostrò effigiati i volti di familiari delle vittime: una nonna, una madre e un bambino, straziati dal disperato terrore. Tutto accadde all’improvviso verso il primo mattino. I soccorsi furono rapidi, ma la profondità del sito, le difficoltà di raggiungerlo fecero da invalicabile ostacolo.
Il fumo e le fiamme, i limitati mezzi di allora resero vani gli interventi, che si protrassero per due settimane. Finché il primo soccorritore riuscì ad arrivare sul luogo del disastro. Uscì in superficie, gridando allucinato: Sono tutti morti. Più tardi, sopra un traliccio di supporto fu rinvenuta la scritta: 13,45. Una testimonianza atroce. Segno che per più di 5 ore qualcuno era rimasto in vita nella casa del diavolo, solo e lontano dal mondo, in attesa di morire. Oggi, il sito minerario dismesso fa parte del patrimonio storico dell’UNESCO.
Il grisou, l’assassino di Morgnano
Un anno prima (1955) pure la nostra regione conobbe una tragedia mineraria. Di proporzioni minori, ma ugualmente esempio dei pericoli incombenti in quel gravoso mestiere. Un venefico nemico dei minatori era il grisou. Si tratta di un gas altamente infiammabile, inodore e incolore, composto in prevalenza da metano presente nel sottosuolo. La combustione può provocare una esplosione devastante. Si ricorda ancora il canarino in gabbia portato, ogni volta, dal primo uomo a scendere in galleria: La presenza di notevoli quantità di grisou lo uccideva quasi all’istante. L’illuminazione, assicurata con lanterne a combustione, aumentava il rischio di scoppio. In molti tentarono di costruire una lampada diversa dopo l’invenzione della pila elettrica da parte dell’italiano Alessandro Volta. Però, il pericolo non si riuscì a debellare totalmente.
Fu proprio il grisou a scatenare l’inferno nella Miniera di lignite che prendeva il nome da Morgnano, il piccolo paese poco distante da Spoleto. La lignite, derivata da alberi poco decomposti, in epoca terziaria, ha avuto in Umbria, per molto tempo, quel grosso impianto di estrazione. Serviva da combustibile, la lignite, nei forni Martin dell’Acciaieria di Terni. Repentagli e fatica erano le “stigmate” per i lavoratori sotterranei.
Arrivavano a piedi o in bicicletta, anche da luoghi lontani: altro mezzo non c’era. Prevalevano la forza delle braccia umane per scavare e le zampe degli animali per trainare i vagoncini di prodotto, portato, con gli ascensori, in superficie. Essere operai, in un mondo di contadini soggetti ai capricci delle stagioni, veniva considerato quasi un privilegio economico e sociale. Lo stipendio fisso.
Il mattino del 22 marzo 1955, alle sei, la vita a Morgnano faceva il suo solito corso nella tranquillità del borgo, come d’ogni borgo umbro. Tranne nella miniera dove un fragoroso rimbombo fu il segnale della sventura. L’esplosione di una sacca di grisou, che aveva saturato l’aria, non la percepirono in paese. Il grande allarme, quando le sirene dei Vigili del fuoco squarciarono il silenzio. E la disperazione quando si cominciarono ad estrarre i morti. Sino a ventitre. In una comunità così esigua, il lutto fu straziante e condiviso.
Lo stesso giorno, il Ministro del lavoro informò la Camera dei Deputati. Parlò di “eccezionale gravità del disastro”. Si disse: “Il martirologio dei minatori continua. Questi lavoratori pagano duramente il magro salario che viene loro corrisposto”. Intervenne l’on Filippo Micheli per chiedere “provvedimenti di immediato sostegno a favore delle famiglie colpite”, oltre ad accertare “la situazione nella quale si trovano le opere di garanzia per l’incolumità dei lavoratori della miniera umbra”.
L’attività estrattiva che durava da molti decenni, a Morgnano, è cessata nel 1961, essendo diventata anche economicamente insostenibile. La perdita di centinaia di posti di lavoro si è sommata a quella dei licenziamenti di massa, del biennio 1952 – 53, alla Soc. Terni che delle miniere era proprietaria. C’è oggi, all’ingresso del pozzo Orlando, luogo della drammatica vicenda del 1955, un Museo considerato luogo della memoria.