Home Cultura Il potere magico e ammaliante di Floriana La Rocca

Il potere magico e ammaliante di Floriana La Rocca

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A colloquio con la scrittrice, performer, cantante, attrice, autrice, artista a tutto tondo, che da oltre vent’anni vive in Umbria

In Umbria, da più di vent’anni, splende rigoglioso e fiero un bellissimo fiore che si muove con la grazia e l’incanto di un girasole. Si chiama Floriana (nomen omen) ed è un diamante dai mille carati e dai riflessi infiniti: scrittrice, performer, cantante, attrice, autrice, artista a tutto tondo, che nel suo essere pregevole espressione multitasking, non finisce mai di stupire, dimostrando una versatilità straordinaria, che va magicamente a riverberarsi in tutti i campi delle arti che lei rappresenta.

Il 24 febbraio scorso ha debuttato in Sala Cutu, del teatro di Sacco di Perugia, con lo spettacolo “E mo che vuoi”, che è il titolo di un brano musicale che Ivan Graziani ha inserito in uno dei suoi Lp uscito negli anni Ottanta, un brano che ha segnato in qualche modo anche la vita privata di Floriana.
«Perché – si confida in questa intervista Floriana La Rocca – con Ivan, oltre la mia collaborazione artistica c’è stato anche un feeling, un’amicizia particolare. Ci siamo frequentati per molti anni, fin quando poi è sparito travolto dalla malattia, tanto che appresi della sua morte via radio, tornando dall’Austria. Io continuavo a cercare di comunicare con lui, ma lui stava male e non mi rispondeva, perché evidentemente non voleva dirmelo».

“E mo che vuoi” è il titolo dello spettacolo, come è arrivata a questa scelta?
«“E mo che vuoi” è un brano che lui mi fece ascoltare in un albergo di Roma, ed è una canzone che mi colpì nel profondo, in quanto toccò le parti più intime delle mie corde, sollecitando in me forti emozioni, legate a quell’“affaire” collaborativo che si era venuto a creare, sia artisticamente che di grande amicizia.
“E mo che vuoi” ha segnato la mia vita e ha lasciato in me non soltanto ricordi, ma mi ha dato anche la possibilità di entrare in un mondo particolare, quello delle cose non dette, o forse dette in maniera più ovattata, non così esplicite come invece ho elaborato nella piece teatrale. Tutto lo spettacolo mette in luce i vari brani di Ivan Graziani, le sue doti, il suo straordinario talento, fine a farne un racconto personale che esalta il suo aspetto da menestrello, più che da rocker, quale lui è stato, fino ad essere riconosciuto come uno dei più grandi cantautori italiani, uno dei primi. Molto amato come artista, ma poco ricordato. Purtroppo prematuramente morto nel 1997 a 51 anni».

Su un piano personale perché l’ha attirata la scelta che ha fatto di diventare attrice, cantante, autrice, scrittrice di sceneggiature teatrali, romanzi e poesie?
«Il mio percorso artistico parte dalla musica, con la vittoria di Castrocaro nel 1977, con un nome d’arte, che era Fiora. E poi la Emi, che era l’etichetta con la quale firmai il contratto, mi fiondò l’anno dopo in Giappone a rappresentare il Festival di Sanremo-Atami.
Praticamente ho iniziato ad esibirmi quasi da bambina. Ero giovanissima ma già cantavo nelle piazze di Puglia, Calabria, Campania.
Nata a Taranto, da madre della Valle Ditria e padre siciliano cresciuto vicino ad Agrigento nella Valle dei Templi, credo di avere tracciato nel mio Dna la fastosità della Magna Grecia, mista alla risolutezza e alla spartanità tarantina».

E quindi si è inoltrata nel fantasmagorico mondo dello spettacolo, fino a dedicargli l’intera esistenza.
«Sì, non ne sono più uscita, perché avrei potuto fare anche l’insegnante, però mi affascinava molto questo mondo, e dunque iniziai anche a dedicarmi alla scrittura. Perché già all’epoca, da subito dopo Castrocaro, sentivo la necessità e il bisogno di esprimermi in versi. La poesia già mi affascinava e ricordo che fin da adolescente scrivevo e raccoglievo le mie prose nei cassetti.
Poi iniziai a comporre testi anche per canzoni, passai dopo la Emi in Rca. Lì incontrai Ivan Graziani, Gino Paoli, Riccardo Cocciante ed altri importanti cantautori del momento, con i quali collaborai.
Con Ivan presentammo un brano scritto da lui ‘Vedi è facile’ e ‘Dammi un pezzo del tuo cuore’, scritto assieme, che doveva diventare il lato B di questo disco.

C’era ancora il vinile, partecipammo al festival di Caorle (VE). Poi il viaggio a livello cantautorale con questi personaggi prese altre strade con la scelta personale di ritirarmi a Taranto, dedicandomi come autodidatta al Teatro.
Una spinta forte la ebbi negli anni ’90, quando calcai il palcoscenico del teatro Parioli ospite “sulle righe” del “Maurizio Costanzo Show”. Ho ancora in mente le risate del pubblico quando nella prima puntata mi presentai con un animaletto sulla bombetta. Era il 1° aprile, non avevo il pesce e portai l’uccello; o quando mi presentai con un abito di tulle rosa lungo 25 metri. Una “scoppiettante” apparizione che non finiva più, con Costanzo divenuto il mio “paggetto”».

Sì può dire che è riuscita a vivere d’arte?
«Assolutamente sì. Molto lo devo al papà di mia figlia, morto purtroppo due anni fa. Con quest’uomo ho vissuto la vita che ho voluto, perché con lui ho avuto tutte le possibilità di dedicarmi a ciò che amavo. Mi ha sostenuto, mi ha sempre detto sì, mi ha continuamente incoraggiato a fare ciò che desideravo».

Floriana La Rocca ha firmato molti testi, fra cui libri di poesie e anche romanzi.
«Ho pubblicato per i tipi de “Il Coscile”, che è una casa editrice calabrese, “Ai limiti del sogno”. Poi sono andata avanti con la poesia, e ho dato alle stampe “Nicchia, poesie, pensieri e parole”, per la casa editrice umbra Futura.
Dopo di che c’è stata la seconda raccolta “Distretto d’amore”, con la Bertoni Editore, con la quale in seguito ho pubblicato il secondo romanzo “Haloren, storia di una nobile zingara”, frutto di un’esperienza molto coinvolgente, in quanto spacciandomi per giornalista feci un’intervista al re del campo rom. Ero a Bucovina, vicino a Zacopane, in Polonia, e camminando con degli amici sentii una voce femminile cantare dietro un recinto e chiesi di farmi conoscere questa realtà, che poi trascrissi nel libro.
“Haloren” è potenzialmente la sceneggiatura per un film. L’ho sottoposta anche a Ferzan Ozpetek. È un mondo che egli potrebbe meravigliosamente adattare cinematograficamente. È inoltre sempre in essere il progetto teatrale su Pablo Neruda, “Il sangue e l’aria”, tenuto presso Biblioteca San Matteo degli Armeni a Perugia, anticipato da quello su Sylvia Plath andato in scena anche per Teatro Di Sacco e con il quale spero di toccare i teatri romani. Il mio più recente volume di poesie si intitola “Strumenti a corde”, edito sempre da Bertoni».

Insomma una vita ricca di esperienze, di sperimentazioni. Tutto questo come incide sull’interpretazione?
«È importantissimo, perché l’attore, il cantante, è un trasmettitore di emozioni. Io penso che l’artista non può definirsi tale se su un palcoscenico, che può essere anche uno scranno su cui salire anche con davanti un solo spettatore, se in quella condizione non avviene una osmosi, vale a dire se le sue trepidazioni e sensazioni non vengono “contagiate” a chi ti sta vedendo e ascoltando. Che poi a sua volta te le ridà creando quindi quel feedback che fa sì che il primo attore a teatro sia proprio il pubblico, nel senso che è colui che ti aiuta a dare il meglio di te. È lì che subentra l’empatia e la voglia di comunicare e quindi il contesto ideale in cui il vissuto diventa un elemento fondamentale capace di fare la differenza, perché tutto quello che è passato traspare e trapela nell’interpretazione. Contano i silenzi, i respiri, le pause, le battute di ciglia. È fondamentale mettere nella rappresentazione qualcosa di se stessi. Perché se tu hai una pianola che suona in maniera meccanica, questo non ha nulla a che vedere con il tocco del pianista che sfiora i tasti e picchia e stoppa e dunque dà la sua “lettura” personale e “unica” del brano».

Lei ha seguito dei corsi di recitazione di altissimo livello.
«Sono stata attrice e autrice nell’atelier di Giorgio Albertazzi, nel 2011, poi ho seguito il corso di perfezionamento all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” dove entrai nel numero degli ammessi con i diciannove ventesimi dell’attenta commissione preposta alla valutazione.
Ricordo con orgoglio di aver seguito il metodo Lee Strasberg, un percorso formativo attoriale che attraverso una serie specifica di esercizi mirati ad accrescere consapevolezza e rilassamento fisico, fornisce agli attori una tecnica per raggiungere velocemente ed efficacemente risultati espressivi diretti e coinvolgenti.
Sono stata allieva di Loredana Scaramella, docente fra i più acclarati e precisi e poi ho seguito un superbo corso di sceneggiatura con Giuseppe Rocca e con Giovanni Veronesi, Gianfranco Albano, Tiziana Aristarco, Nicolaj Karpov, Giorgio Albertazzi. Insomma ho avuto riferimenti importanti e sono grata per questo alla vita. Da tutti loro ho carpito, recepito, imparato, e così sono arrivata a fare esperienze anche nel cinema».

Che ruoli ha ricoperto sul grande e piccolo schermo?
«Tutto ha avuto inizio quando vinsi Castrocaro, che mi portò a interpretare me stessa in un film di Raimondo Del Balzo, che venne a girare a Taranto, regista del famoso film “L’ultima neve di primavera”. Ho avuto un ruolo in “Carabinieri VI” quando veniva registrato a Città della Pieve. Ho avuto una parte nel film con Sabrina Ferilli “La Provinciale” per la regia di Pasquale Pozzessere, girato ad Orvieto. A quelle seguirono poi altre esperienze, come l’essere stata protagonista del cortometraggio di Carmine Lautieri, dove ho rivestito i panni di una delle tre signore del paese.

Speranza, coraggio e solidarietà sono i valori e i sentimenti su cui ruota lo spettacolo teatrale di cui ho curato la regia, ispirato al libro ‘Un lungo sonno… e poi?’ di Elisabetta Chiabolotti. È il racconto della drammatica vicenda personale che ha coinvolto l’autrice in prima persona: Elisabetta infatti ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza del coma, riuscendone a uscire vittoriosamente. Per questo ha poi voluto mettere nero su bianco questa sua storia, di modo da dare un messaggio di speranza a chi si trova in condizioni di stato vegetativo e ai loro familiari. A distanza di cinque anni dalla sua pubblicazione, il libro è quindi divenuto per me fonte d’ispirazione per lo spettacolo teatrale andato in scena al Teatro della Filarmonica di Corciano. All’evento ha collaborato l’associazione perugina ‘Mai soli’, che ha come obiettivo principale l’assistenza e la cura delle persone in coma e stato vegetativo permanente e persistente».

Quali sono i suoi progetti futuri?
«La cosa a cui tengo di più è quella di portare in giro questo spettacolo dedicato a Ivan Graziani. Un personaggio che aveva di unico e speciale quel suo saper andare lontanto, quel suo esserci come soggetto e allo stesso tempo far parte di un universo talvolta imprendibile anche da chi gli stava vicino. Sì, amo quella sua capacità di andare lontano, la sua sottile sensibilità, la sua indole da grande poeta».

Il suo sogno nel cassetto?
«C’è ancora una cosa che non ho fatto. Cioè entrare in un musical. Lì è un fatto corale, lì è il gruppo che vive. Un’esperienza che farei molto volentieri».

Perché ha scelto l’Umbria come sua terra d’adozione, un luogo che può rappresentare un limite per un’artista talentosa e muliebre come lei.
«Con mio marito e la nostra bambina amavamo andare a cavallo. E dunque venendo in questa bellissima regione, e girando per hotel, avemmo modo di contattare vari amici, finché uno di questi ci propose di cogliere l’occasione di acquistare un rudere a Castello delle Forme. E dunque valutammo questa possibilità, e quindi dal venirci soltanto nelle feste, Natale, Pasqua, decidemmo di risiedervi dal luglio 2000.
E anche qui le occasioni non mancano. Per esempio la Blu Video di Matera, che è la Film Commission lucana, mi ha chiamato mesi fa per un ruolo particolare nella fiction “Commissario Ricciardi 2” che è andato in onda su Rai1 lunedì 20 marzo.
Oggi posso dire che devo molto all’Umbria, per quel suo racchiudere in sé un aspetto anche piuttosto misterioso e integrante, per la sua spiritualità latente, che si avverte anche nelle piccole cose, che si riescono comunque a cogliere e a captare vivendoci. Tutto questo ha un riflesso positivo, importante sul personaggio Floriana quando poi diventa interprete della canzone, della recitazione e nella creatività della scrittura».

Francesco Castellini