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Per curare gli immigrati irregolari l’Umbria spende 4,4 milioni di euro

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L’assessore Barberini risponde al question time presentato dal consigliere Marco Squarta (Fdi) e ne emerge una realtà complessa e piena di contraddizioni

sprechi-corruzione-sanitàDi Francesco Pastorelli – Che la sanità pubblica stia vivendo uno dei suoi momenti più difficili è sotto gli occhi di tutti. Una realtà impossibile da confutare, visto che ogni assistito sperimenta sulla propria pelle tutte le quotidiane storture che lo costringono sempre più ad armarsi di infinita pazienza ogni qual volta è costretto suo malgrado a fare i conti con le strutture addette ad assicurare cure e prestazioni mediche.

Lo slogan rimane sempre quello: “Sanità gratis per tutti”. Ma poi vai a vedere e le questioni si complicano e la realtà non è proprio così scontata.

I cahiers de doléances si riempiono di nuovi dolori e fra una questione e l’altra (liste d’attesa sempre meno concilianti col principio della prevenzione; Pronto Soccorso che implodono; personale sanitario risicato; interventi chirurgici sospesi per mancanza di anestesisti), c’è davvero poco da stare allegri.

E avoglia a darsi lustro vantando il primato conquistato dall’Umbria tra le regioni benchmark, che ha portato la governatrice Marini ad affermare soddisfatta: «Il lavoro concreto premia sempre».

La cosa non ha trovato per nulla concorde Stefano Vinti, dell’associazione culturale Umbrialeft, che subito ha replicato: «È irritante per decine di migliaia di pazienti l’enfasi usata per propagandare l’equilibrio di bilancio della sanità umbra. Agli utenti non sfugge che tale risultato economico è anche il frutto di una riduzione dei servizi sanitari pubblici e delle prestazioni, di un aumento dei ticket e, allo stesso tempo, di una crescita esponenziale della sanità privata che, seppur costosa, è ormai competitiva con quella pubblica per diverse prestazioni». E ancora: «Le infinite liste di attesa – prosegue Vinti – sono indice di prestazioni da considerare sempre meno al servizio della persona e sempre più funzionali ad una sanità che diventa un affare, con pazienti trasformati in clienti che hanno perso lo status di cittadini. Una situazione alimentata da politiche nazionali fondate su tagli draconiani».

«Alla sanità umbra – conclude Vinti – servono meno propaganda e più investimenti, ad iniziare dalla prevenzione».

E a proposito di soldi, a mettere il dito sulla piaga dei conti è il consigliere regionale Marco Squarta (Fdi), che recentemente ha presentato una sua interrogazione trattata nel question time dell’Assemblea legislativa, per chiedere se è vero che la Regione Umbria vanta un «credito importante nei confronti del Ministero della Sanità per aver anticipato soldi utili a pagare le cure degli immigrati senza permesso di soggiorno. Quegli stessi ai quali nella stragrande maggioranza dei casi è stata rifiutata la domanda di asilo politico».

Per Squarta dal 2014 al 2017 sono stati spesi complessivamente in Umbria, per le cure sanitarie rivolte a immigrati irregolari, 4,4 milioni di euro. «Spese mediche per pronto soccorso, ricoveri, vaccinazioni, profilassi e bonifiche per malattie infettive», elenca il portavoce di Fratelli d’Italia nel suo atto.

Noti dolenti a cui l’assessore alla Salute, Luca Barberini, ha risposto rendendo noto come «per il periodo 2014-2016 risulta un residuo da riscuotere dallo Stato di 73 mila euro, oltre ad ulteriori crediti riferibili al periodo antecedente al 2014 che ammontano a circa 1,2 milioni di euro distribuiti tra le allora quattro Asl e che la ricognizione dei crediti è stata effettuata dalle singole aziende sanitarie e ospedaliere dell’Umbria, che nel periodo di riferimento hanno garantito le cure primarie agli stranieri irregolari temporaneamente presenti nel nostro territorio».

Si è venuto anche a sapere che nel frattempo la Regione ha cercato di contenere le spese per le cure essenziali, dando agli stranieri irregolari la possibilità di iscriversi nelle anagrafi sanitarie delle Usl, con l’assegnazione del pediatra o del medico di Medicina generale.

Un sistema che mira ad evitare il ricorso al Pronto soccorso e ai ricoveri urgenti, decisamente più costosi. Ad oggi risultano iscritte 592 persone (443 nella Usl Umbria 1 e 149 nella Usl Umbria 2).

Un capitolo a parte riguarda poi le prestazioni sanitarie legate a gravidanza e maternità, minori, interventi di profilassi internazionale, malattie infettive e vaccinazioni, per le quali esiste un Fondo nazionale ad hoc, ripartito annualmente tra le varie regioni.

Sta di fatto che ancora adesso le Asl finiscono in rosso e sono costrette a tagliere personale e posti letto. Inoltre sono obbligate – soffocate dal peso delle spese – a chiedere aiuto allo Stato.

E intanto i costi continuano ad aumentare.

Dal rapporto Oecd Expert Group on Migration, relativo al 2016, viene fuori che in Italia i costi sanitari per gli immigrati sono stati pari a 4 miliardi di euro. E che lo scorso anno gli immigrati inseriti nei Servizi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) hanno usufruito di quasi 53 mila prestazioni assistenziali.

Si tratta di somme impegnative che secondo la Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) devono essere razionalizzate.

Tanto che è stato redatto un vademecum di intervento che riguarda tante patologie riemergenti, vale a dire quelle malattie che in Italia erano considerate pressoché debellate o comunque presenti in numero esiguo a parte l’Hiv. Tubercolosi, epatite, malaria, parassitosi intestinali, infezioni sessualmente trasmissibili e non ultimo il retrovirus dell’immunodeficienza.

«Fino a oggi i controlli sui migranti sono stati dettati dall’emotività e anche dai pregiudizi. Con queste linee guida si può finalmente dimensionare il problema» – afferma Salvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria della Caritas, già presidente della Simm e ora nel comitato direttivo. Ma intanto si continua a soffrire e a spendere. E non c’è dubbio alcuno che quella delle politiche sanitarie a favore degli stranieri irregolari sia diventata una questione emergenziale.

C’è un esercito di bisognosi a cui sono chiamati a rispondere le Regioni e le aziende sanitarie locali che si trovano in prima linea nell’accoglienza, per non parlare della macchina delle aziende ospedaliere dei territori costrette a muoversi sulla seconda linea, quando il soccorso base non basta ma sono necessarie cure più complesse: profilassi, ricoveri per infezioni e parti, prestazioni diagnostiche, radiografie, prelievi ematici.

Tutti interventi che richiedono un impegno di mezzi e di uomini, cresciuto in maniera esponenzile negli ultimi anni, fino a diventare un macigno sulle spalle delle Regioni. Cifre che dovrebbero essere rimborsate dallo Stato tramite le prefetture, ma a causa dell’esplosione del fenomeno migratorio e di stanziamenti sempre al di sotto dei reali fabbisogni, il conto a oggi è ben lungi dall’essere saldato. Per ora si sa che, secondo dati ricavati dai bilanci delle singole amministrazioni, il credito nei confronti dello Stato supera cento milioni di euro.

E va da sé che la cosa va a ripercuotersi sull’intera organizzazione di una sanità nazionale concepita e calibrata in funzione di un equilibrio perso, venutosi a compromettere negli ultimi anni, e di cui poi a farne direttamente le spese sono quei sette milioni di italiani che si indebitano per cure mediche e farmaceutiche.

Si stima inoltre che un 41% di connazionali sia ormai costretto a coprire le spese sanitarie esclusivamente con il proprio reddito, spesso rivolgendosi direttamente alle strutture private per farsi curare in tempi utili, o semplicemente per tentare di sopravvivere in mezzo a questo casino.