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“La violenza sulle donne è invisibile nei tribunali”

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Cosi scrive a chiare note il “Rapporto” approvato a giugno dalla Commissione parlamentare sul femminicidio

di Paola Mariottini – “La violenza sulle donne è invisibile nei tribunali italiani”. Cosi scrive a chiare note il “Rapporto sulla Violenza di genere e domestica nella Realtà Giudiziaria” approvato a giugno dalla Commissione parlamentare sul femminicidio.

Una tesi supportata dai numeri rilevati dalla relazione, che altro non è che il frutto dell’analisi delle indagini dei processi tenutisi nelle procure della Repubblica e nei tribunali ordinari; dopo aver assunto informazioni nei tribunali di sorveglianza, presso il Consiglio superiore della magistratura, la Scuola superiore della magistratura, il Consiglio nazionale forense e gli ordini degli psicologi.

Il rapporto rivela dati desolanti, anche se purtroppo ben noti da tempo.

Mancano i magistrati specializzati, si sottovaluta la formazione di giudici, di avvocati, di consulenti e della polizia giudiziaria, e difetta il necessario dialogo fra ambito penale e civile, per cui nella maggior parte dei procedimenti civili le violenze ed i maltrattamenti delle donne vengono superficialmente qualificati come “conflitti familiari”.

E dunque molti addetti ai lavori si chiedono come si fa a combattere la violenza contro le donne se questa non viene “riconosciuta” in ambito giudiziario, nelle procure, nei tribunali, tra magistrati, avvocati, psicologi? A questa si aggiungono altri interrogativi: le cause civili per separazione e quelle penali contro gli uomini maltrattanti sono collegate o separate?
I consulenti di parte sono specializzati?

La risposta a tutte queste domande è no, la violenza contro le donne ancora oggi, nelle aule di giustizia, in particolare in ambito civile, viene sottovalutata, non identificata, spesso letta come “conflitto familiare”.

Questo è quanto emerge dalla ricerca-inchiesta condotta da D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) e realizzata attraverso una indagine che ha coinvolto gli avvocati che collaborano con i centri antiviolenza della rete, che conoscono bene le difficoltà che le donne incontrano nel percorso con la giustizia.

La ricerca ha preso in esame i procedimenti giudiziari presso i tribunali civili e per i minorenni, per verificare l’applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul relativo alla “Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza”, che impone “la necessità di considerare la violenza (e la sicurezza della madre) nella determinazione e regolamentazione di tali diritti, il divieto di meccanismi obbligatori di mediazione, la necessità di strumenti di valutazione del rischio, la protezione della vittima”.

Ne emerge che nelle decisioni adottate la Convenzione di Istanbul non è mai citata come riferimento normativo e che la violenza viene riconosciuta solo in minima parte.

Ancora più grave la situazione quando si guarda alle decisioni in merito ai minori che possono aver assistito alla violenza o aver subìto violenza essi stessi. Dalla ricerca emerge chiaramente che «ancora oggi per i Tribunali l’obiettivo principale è salvaguardare e conservare “il rapporto con la prole”, ovvero il legame genitore-figlio, indipendentemente dalla presenza di condotte violente nei confronti della madre. La convinzione radicata è che un uomo maltrattante possa essere un buon genitore», scrivono le curatrici.

Ne risulta che nell’ 88,9% dei casi presso il Tribunale ordinario e nel 51,9% dei casi presso il Tribunale per i minorenni, è stato disposto l’affidamento condiviso tra i genitori anche in presenza di denunce, referti, misure cautelari emesse in sede penale, decreti di rinvio a giudizio, sentenze di condanna e relazioni del centro antiviolenza.

Nel 70,4% dei casi presso il Tribunale ordinario e addirittura nel 90,7% dei casi presso il Tribunale per i Minorenni, è stato disposto l’affidamento ai servizi sociali, anche se nella quasi totalità dei casi è stato contestualmente predisposto il collocamento presso la madre.

La ricerca conferma il ruolo preponderante delle relazioni dei servizi sociali sulla genitorialità, disposte nel 75 per cento dei casi seguiti dagli avvocati presso il Tribunale per i minorenni, e delle Consulenze tecniche di ufficio (Ctu) che invece vengono disposte nel 75,9 per cento dei casi per i quali i legali hanno fornito documentazione comprovante la violenza domestica e la violenza assistita.

Nell’83% dei casi i quesiti ai quali le Ctu sono chiamate a rispondere sono standardizzati e non definiti in base al singolo caso preso in esame, e ben nel 94% dei casi non sono poste domande in merito alla violenza subita e/o assistita.

Cosa fare? Per le curatrici della ricerca, “è improcrastinabile una doppia strategia: da un lato un percorso culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza emergenziale della materia; dall’altro, la messa a punto di azioni e interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti e adeguati”.

Al momento solo una minoranza delle Procure, pari al 12,3 % (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma soprattutto nelle piccole Procure questi Pm trattano anche procedimenti di altro tipo, fra cui reati contro il patrimonio e contro l’onore che nulla hanno a che fare con una materia così delicata ed emergenziale.

Gli uffici giudiziari non hanno quindi una pretendibile consapevolezza della particolare complessità insita nella trattazione della violenza di genere e domestica, tanto che il 62 % dei procuratori dichiara di equipararla alle altre materie, soprattutto nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i colleghi magistrati.

A questa grave sottovalutazione del problema, si collegano conseguenze inaccettabili in un sistema di tutela dei diritti: l’inadeguatezza e l’inefficienza della risposta giudiziaria, la non tempestività dell’intervento, l’aggravio e lo sbilanciamento del carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di un distacco istituzionale dalla materia ed un disincentivo a trattarla.

Nei tribunali in definitiva la violenza di genere tende a non essere vista, a scomparire, con scarsissima applicazione di linee guida, di protocolli o di accordi di collaborazione nella materia della famiglia e della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra i settori civile, penale e minorile e con un’offerta formativa carente per cui, oltre al sopra menzionato difetto di specializzazione della magistratura, viè che solo lo 0,4 per cento degli avvocati ha partecipato a eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, e manca, nella quasi totalità dei casi, la formazione specifica dei consulenti, in particolare degli psicologi, nell’ambito della violenza di genere e domestica.

Leggendo questa relazione finalmente si comprende perché la violenza in famiglia e sulle donne oggi in Italia sia diventata una vera e propria emergenza sociale.