Home Economia Che ne sarà del sistema economico italiano dopo il Coronavirus

Che ne sarà del sistema economico italiano dopo il Coronavirus

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Sulla situazione precaria preesistente è caduta una enorme frana

di Adriano Marinensi – La domanda che sta nel titolo è pregiudiziale rispetto alla onerosa programmazione dell’attività post epidemia, necessaria a rimettere il Paese sui binari della ripresa. Mentre si dice nulla sarà come prima, occorrerà definire le forme di intervento indispensabili a ricostruire un sistema economico di base che faccia da supporto alla nuova e rinnovata condizione sociale e civile, liberata dai limiti imposti dalla pericolosa contingenza sanitaria. Contingenza avversa che sta facendo rivivere, a chi ha i capelli bianchi, gli effetti collaterali di un’altra guerra, condotta a mano armata. Quella attuale senza macerie, però con tanti morti. Ci ha fatto riascoltare i quotidiani bollettini dal fronte (di lontana memoria) sotto forma di conferenze stampa della Protezione civile.

C’è oggi un esercito di pace, reclutato in parte attraverso appelli ai volontari, che richiama l’eroismo di allora. I volontari che il sistema sanitario ha espresso sanno, come quelli di allora, che per ciascuno l’impegno pone reali pericoli di morte: questo è eroismo e di loro occorre parlare all’inizio d’ogni discorso. Del personale medico e infermieristico e di quanti altri lavorano nel settore gravoso di ricovero e cura. Un esercito in battaglia del quale fanno parte “le salmerie ed i corpi collaterali”, cioè gli addetti alle pulizie, al vettovagliamento, al trasporto e messa in funzione dei materiali, al magazzinaggio e quanti sono alle prese con i problemi strazianti delle camere mortuarie.

Di tutti costoro dovremo ricordarci in futuro. Un futuro che, fin dal presente, va considerato, mettendo in campo le armi giuste per affrontare altri nemici reali che si chiamano recessione, fallimenti, nuove povertà, sbandamenti sociali ed espressioni di rabbia che, nel pericolo, minano la democrazia e la convivenza. Potrebbero non bastare più gli appelli al senso di responsabilità civile, l’opera di convincimento, l’ardimento. Il ritorno alla normalità dovrà passare innanzitutto attraverso una rapida ricostruzione del tessuto economico – produttivo, indispensabile per ricreare ricchezza collettiva, il “carburante” che muove la macchina del Paese. Mantenere poi il clima di impegno tra le componenti politiche sperimentato durante la guerra al virus, con giustizia ed amor di popolo. Bando dunque agli atteggiamenti umorali provocati dai sondaggi, tenendo presente che, in situazioni critiche, il consenso fa presto a mutare in addebito.

Le richieste di protagonismo concreto rivolte da più parti all’Unione Europea offrono l’occasione per testimoniare il suo livello di solidarietà internazionale e di mutuo soccorso. Addirittura il suo diritto all’esistenza, sconfiggendo i disertori, ispirati agli egoismi sovranisti. E’ l’occasione per distribuire equamente, tra tutti gli Stati, il carico della ricostruzione post bellica, operando con strumenti nuovi ed efficienti. Un debito comune, strutturato dentro l’intero perimetro europeo, darebbe il segno di una Unione politicamente diversa e solidale. E’ stato opportunamente sospeso il Patto di stabilità, vale a dire l’insieme delle norme che regolano le politiche di bilancio dei singoli Stati, varate nel 1997. Però non basta. Sarà strategica la condivisione finanziaria e le intese collegiali. “Il clima che sembra regnare tra i Capi di Stato e di Governo – così si è espresso il vecchio Jaques Delors, ex Presidente della Commissione Europea – e la mancanza di solidarietà fanno correre all’U.E. un pericolo mortale.”

In Italia, rilevanti ruolo e funzione spetteranno ai soggetti che fanno capo alla governabilità del Paese (il più possibile condivisa), pure di fronte al preoccupante fenomeno delle nuove povertà provocate persino dalla crisi del sommerso. Chissà che non occorra rivolgere uno sguardo pensante a passate esperienze, quando il nostro Paese, seppure per contingenze differenti dalle attuali, ebbe bisogno del cosiddetto Stato imprenditore per fare da volano nei primari settori produttivi. Insomma, una nuova I. R. I. operante secondo le attuali regole di mercato mondiale ed i trattati europei. All’I. R. I. facemmo appello, soprattutto nel dopoguerra per svolgere il compito di tutela dell’industria e dell’occupazione. Perché, nei tempi di quiete dopo la tempesta, ci saranno cadute in termini di perdita di posti di lavoro. Ci saranno molte imprese, già vulnerabili prima e quindi marginali – stando alla definizione della scienza delle finanze – che finiranno fuori mercato.

Avremo bisogno di un progetto operativo credibile, in grado di garantire sicurezza di remunerazione agli investitoti esteri. E certezze dovranno venire dai partiti, dal sindacato e dal mondo delle imprese, senza infingimenti. Sarà preziosa la coesione sociale, realizzata anche esprimendo regole di cultura politica di alto livello. Massima attenzione alla immortale burocrazia, tornata a farsi viva persino nella redazione oscurantista del recente “Testo delle ordinanze di protezione civile”. Chi ha avuto la pazienza di contarne le parole, ci racconta che ne sono state usate 123.000, quasi nove volte quelle utilizzate per scrivere il sacro testo della Costituzione. E particolare attenzione alle organizzazioni mafiose che, in simili circostanze, cercano facili guadagni nell’usura e nel ricatto a danno soprattutto dei piccoli imprenditori.

Conclusione un po’ sconclusionata. Mi è piaciuta (I like, secondo l’usanza in voga) la rampogna indirizzata da Pupi Avati ai modelli dell’intrattenimento televisivo, RAI – TV in primo luogo, sotto forma di suggerimenti intelligenti. Il tempo sospeso della quarantena potrebbe servire per rivoluzionare i palinsesti e “dare l’opportunità ai telespettatori – sostiene Avati – di crescere culturalmente e conoscere che c’è dell’altro e migliore al di la dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati dai vip o dai soliti opinionisti”. Si tratta di quelle comparsate – mi permetto di aggiungere – che non hanno fatto un passo indietro neppure di fronte alla grande tragedia. Anzi, hanno inserito il coronavirus in ogni dove, pure dove non c’entrava affatto. Quasi il dramma avesse bisogno di effetti speciali. Nel filo consueto della strumentalizzazione parolaia a bassi fini d’ascolto e a scopo di lucro.

Su tutto questo pattume, si è levata solenne l’invocazione di Papa Francesco, agnello sacrificale di fronte alla Piazza S. Pietro deserta, Lui e il Crocifisso salvatore di Roma dalla pestilenza del XVI secolo. Ha pronunciato una vera e propria bolla pontificia, con toni di alto significato ecumenico. Ai credenti e non solo a loro, ha detto: “Se accogliamo Cristo sulla nostra barca, non faremo mai naufragio”.