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«Bettino, un leader che sapeva vedere lontano»

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A colloquio con Aldo Potenza, segretario del Psi umbro ed esponente di prima fila di quegli anni Novanta che videro la caduta della Prima Repubblica

di Francesco Castellini Aventi anni dalla morte dell’ex leader del Psi Bettino Craxi, che guidò l’Italia al settimo posto tra le potenze economiche mondiali, si è parlato anche delle cause che lo scostrinsero all’esilio in Tunisia. Della sua figura politica ne parliamo con Aldo Potenza, per due legislature nella giunta di Palazzo Donini, esponente di spicco del Psi in quegli anni Novanta che lo videro ricoprire anche il ruolo di segretario regionale.

Partiamo dal film, che impressione le ha fatto?

«Ne ho visto solo una parte, poi sono uscito. Immaginavo che non si potesse costruire la storia politica di un leader come Craxi, ma presentarlo come il malato che in qualche modo cerca di reagire a delle ingiustizie, lo trovo riduttivo e quasi offensivo per la figura che lui ha rappresentato e rappresenta. Sono passati venti anni dalla sua scomparsa e come succede sempre in Italia “i migliori socialisti sono quelli morti”».

Aldo Potenza

Adesso si riscopre che in molte cose Craxi aveva visto lontano.

«Aveva ragione sull’annullamento dei debiti ai Paesi poveri in difficoltà, quando aveva lanciato un’iniziativa a sostegno dell’Africa, con un intervento che non fosse neocoloniale, ma altra cosa. Dando la possibilità a quelle popolazioni di emanciparsi e riscattarsi. Oggi su questo fronte ci ritroviamo chiusi in una morsa dalla quale non so come se ne potrà uscire, con un’Europa afona, incapace di assumere una iniziativa significativa».

Che dire di “Mani pulite”?

«Tutti indistintamente avevano qualcosa da farsi perdonare. La Dc veniva finanziata dagli Stati Uniti e dal sistema delle partecipazioni statali, il Pci da quello delle cooperative e dalla Russia. E i Socialisti in quella circostanza hanno dovuto trovare modi e mezzi, non solo per finanziare la loro attività, ma anche per sostenere battaglie internazionali. Qualcuno mi dovrebbe spiegare le ragioni per cui in Africa, in Cile, in Portogallo, se andava Craxi si alzavano tutti in piedi e l’applaudivano. Bettino stesso diceva che “i soldi sono le armi della politica”. E poi basta ricordare che su di lui non c’è nessuno che abbia trovato un tesoretto personale. Lo ha ammesso da poco anche uno dei magistrati di “Mani Pulite”, che ha dovuto ammettere: “Craxi usava i soldi per la politica”. Il problema è che se si pensa di cambiare e “rovesciare l’Italia come un calzino” con la magistratura, l’unico risultato che si ottiene è quello di distruggere un sistema democratico per aprire la strada agli avventurieri».

Eppure così fu. In un baleno si cancellò la storia importante di un periodo in cui in Italia molte cose stavano cambiando in meglio.

«Basterebbero alcuni dati dell’ultimo governo Craxi: debito pubblico all’89,11 per cento, crescita del del Pil al 3%, aumento della produttività del 25%, riduzione dell’inflazione dal 21 al 4% nonostante due schok petroliferi negli anni Settanta».

E che dire del fatto che il leader socialista non ha mai creduto alla possibilità di un’Europa fondata sulla moneta unica?

«Questo non significava che fosse contro l’unificazione, ma, nella sua idea di Europa, gli Stati, avendo ognuno un proprio destino, dovevano mantenere la loro sovranità. Secondo Craxi indebolire il ruolo delle nazioni avrebbe minato le fondamenta delle più ampie unità interstatali che si volevano costruire. I parametri di Maastricht impedivano in pratica ai Paesi membri di utilizzare la loro autonomia per gestire i momenti di crisi. Per questo Craxi ne criticò la totale astrattezza e capì che la nascente Europa sarebbe stata “in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale”. Fallimenti annunciati e arrivati, che hanno poi portato ai populismi e ad idolatrare quel neoliberalismo secondo il quale il mercato, la competizione esasperata, risolve ogni problema. Per poi accorgersi che privatizzare non basta e che così non funziona. In Italia si guardi al caso delle autostrade. In Inghilterra con le ferrovie hanno avuto molti problemi. E di certo in nessuna parte del mondo conviene dare in mano ai soli privati i servizi sanitari».

Lei ha conosciuto Craxi, qual è un suo ricordo.

«Il più bel ricordo di Bettino è quello di una lettera che lui mi inviò da Hammamet. Io avevo espresso l’intenzione di chiudere con la politica. Mi ero detto: è finita un’epoca, basta, mi occupo di altro. E lui, con una missiva scritta di suo pugno, che io conservo gelosamente, inviatami tramite un giovane socialista che lo andava sempre a trovare, Luca Iosi, mi spronò a continuare. E devo dire che dopo due o tre mesi di riflessione ho seguito il suo consiglio. Io sono stato un uomo vicino a Bettino ma autonomo. Tanto indipendente che nel 1980 gli presentai una lista di candidati che lui non voleva, al punto di arrivare a commissariare la federazione per presentarne un’altra. Con lui sono sempre stato leale ma non ottusamente fedele. Quando non ero d’accordo glielo dicevo. Io non nascondevo le mie idee. E lui sapeva che il tradimento non appartiene alla mia cultura. Non ero abituato a dire “come ha detto Bettino”. Se sei solo un ripetitore di cose altrui sarai poi disposto a sostenere colui che succederà al posto suo».

Il suo più grande insegnamento?

«Craxi aveva idee nuove, una grande determinazione e dignità da vendere. La manifesta volontà di non essere schiavo né della Dc né col Pci. Questa sua forza consentì di dare una spinta ai tanti compagni che in quel periodo temevano che con 9,6% il partito fosse in una fase di declino inarrestabile».

E oggi quali sono le sue preoccupazioni?

«Sono consapevole che ci vogliono anni per costruire e che basta poco tempo per distruggere. E dunque la verità è che questo Paese, ormai privo di leader rispettabili, sta perdendo peso sia sul piano interno che nello scacchiere internazionale. Quando sul proscenio sale un ceto politico impresentabile, senza un progetto politico in testa, con l’aggravante dell’ignoranza e della presunzione, è evidente che non si va da nessuna parte».

E sul fatto che la Sinistra italiana ne sia uscita devastata da questa storia?

«Su questo fronte c’è tanto da lavorare. Sono più che mai convinto che occorra ricostruire in fretta una storia importante, basata su comuni unità di intenti, a partire dalla ridefinizione dei presupposti politici e culturali che la contraddistinguono, che diventi la base per un nuovo partito. Il problema di questa Sinistra è che oggi non ha un’idea precisa di una società che vuol realizzare. Per arrivare a questo occorre ricostruisce una comunità che possa ripartire dal proprio passato e capace di guardare al futuro. La vertenza del 1921 non è ancora stata superata. Ed è chiaro che la scissione che fu fatta allora andrebbe “ricomposta”. Ma per fare questo bisogna prendere atto che il Comunismo è concluso e che la vera strada è quella del Socialismo. Che poi a ben vedere è quello che hanno professato i padri storici come Gramsci prima e Craxi dopo. Per questo il mio più grande desiderio è quello di vedere realizzato questo sogno, vale a dire la nascita di un partito socialista autonomo ed unitario, e su questo sono ancora convinto che io possa dare il mio contributo modesto, insieme a tanti altri compagni di buona fede».